Che cosa resta della mafia

I chiaroscuri di Giuseppe Savagnone

La morte di Totò Riina, il “capo dei capi” della mafia siciliana, riporta di attualità una riflessione su questo fenomeno storico, o, meglio, su ciò che rimane di esso. Non che la mafia siciliana sia ormai estinta. Ma il dilagare del fenomeno dei “pentiti” e l’arresto di boss come Riina e Provenzano, hanno dato dei colpi significativi a Cosa Nostra, intaccandone il prestigio e, soprattutto, disgregandone la compattezza. In passato la mafia era un religione. Non solo e non tanto per i simboli di cui si serviva, spesso tratti dall’armamentario della religiosità popolare, ma per la dedizione totale di sé che era richiesta agli “uomini d’onore” al capo di turno, incarnazione del dio-potere. Nella società post-moderna, questa “spiritualità” perversa sembra – al pari di tutte le altre forme di religiosità – fortemente indebolita e questo favorisce processi di contaminazione di Cosa Nostra con altri tipi di criminalità, meno caratterizzati.

Si potrebbe credere, a questo punto, che i problemi della Sicilia siano risolti o, per lo meno, fortemente ridimensionati. Purtroppo non è così. In realtà, il declino – speriamo definitivo, e comunque in questo momento innegabile – di Cosa Nostra non ha coinciso con la fine della mafia. Perché quest’ultima è sempre stata, prima ancora che un’organizzazione criminale, una mentalità, una cultura, uno stile relazionale, di cui la criminalità vera e propria – quella della lupara e poi degli esplosivi – ha rappresentato l’espressione “militare”, più vistosamente violenta e incompatibile con la civile convivenza, senza però esaurirne le potenzialità negative.

Gli uomini come Riina hanno attirato su di sé l’attenzione quasi esclusiva dei media e dell’opinione pubblica, secondo le logiche di una società fortemente mediatica che ha bisogno di “mostri” da “sbattere in prima pagina”. E non c’è dubbio che di mostri si è trattato, perché hanno ucciso a sangue freddo altri esseri umani, anche bambini innocenti, per la loro corsa sfrenata al potere. Ma se si cercano le ragioni del sottosviluppo della Sicilia e del suo sempre più evidente declino, non si può concentrare l’attenzione esclusivamente sui mostri. Se è vero che la mafia non è solo quella che spara o prepara le stragi, ma un costume perverso, la cui essenza consiste nel misconoscere in modo assoluto le esigenze del bene comune, è intorno a noi – forse dentro di noi – che dobbiamo guardare, qui in Sicilia.

È ai nostri governanti – quelli che noi ci siamo scelti – , nel corso della storia sciagurata dell’autonomia regionale siciliana e che l’hanno utilizzata spudoratamente, con l’arroganza tipica del mafioso, per servire i loro interessi e quelli dei loro “clienti”. Stabilendo loro stessi le regole – l’autonomia lo permetteva! – e operando dunque perfettamente secondo le regole. La legalità innanzi tutto! Quando chiesero a Cuffaro come mai avesse assunto per chiamata diretta il ventitreesimo addetto stampa della presidenza della regione, rispose stupito che era la legge (fatta dall’Ars, l’assemblea regionale siciliana) che lo prevedeva. Ed è una legge (sempre regionale) che consente oggi, ai 54 membri non rieletti, di andarsene con un “premio” di fine mandato di 37.500 euro a testa. Senza parlare dei vitalizi. «Vitalizi d’oro ai deputati siciliani. Reversibilità in eterno ai familiari», era il titolo di un servizio giornalistico di pochi mesi fa. «Sono le regole dell’Ars» commentava mestamente un quotidiano siciliano in questi giorni.

Sono solo degli esempi. Se ne potrebbero citare innumerevoli altri, come la norma che attribuiva un assegno straordinario, per tutti i mesi dell’anno, ai lavoratori incaricati di spalare la neve nel lungo e rigidissimo inverno siciliano… Fu un giornalista del «Corriere della Sera» a denunziare il paradosso. Qui da noi nessuno l’aveva notato.

Dei tentativi di correggere questi stili, per la verità, da parte di alcuni ci sono stati. Era stato elaborato e proposto, per l’Assemblea regionale ,un Codice Etico. Sembrava anzi sul punto di essere approvato. Poi… «Fronte trasversale all’Ars: il codice etico viene affondato», titolava il «Giornale di Sicilia» del 4 novembre 2016.

640px-Strage_di_Via_d’AmelioSì, la mafia non è solo quella del rito col sangue sparso sull’immaginetta sacra, quella delle cosche e degli uomini d’onore. E non è neppure solo quella dei politici. C’è quella degli amministratori che usano il loro potere per bloccare – per indifferenza, per inettitudine, in certi casi perché aspettano il “pizzo” – pratiche relative ad esercizi commerciali o ad altre normalissime attività che incrementerebbero il bene comune. I mesi passano e il cittadino aspetta e cerca in tutti i modi di capire che cosa sta succedendo. Ma gli uffici tacciono. Quando alla fine rilasciano la sospirata licenza o danno comunque la risposta, a volte è già tardi. A meno che non si abbia un amico che conosce un altro amico…

E poi c’è la mafia quotidiana dei semplici cittadini, di quelli che lasciano la macchina in seconda fila, bloccando la tua, e che se tu protesti ti si rivolgono sarcasticamente e con una punta di minaccia: «Mi’, comu sta faciennu…»; la mafia di quelli che gettano sistematicamente l’immondizia all’angolo del tuo palazzo (altro che differenziata…), senza che si veda mai l’ombra di un vigile, tanto per ricordare che il Comune avrebbe il compito di controllare il territorio…; la mafia degli assenteisti che sbrigano le loro faccende invece di lavorare nei propri uffici al servizio della gente.

Così si continua a vivere in Sicilia nel tempo del declino della mafia di Riina e di Provenzano. E i frutti si vedono. Un sistema sanitario a pezzi, anche se ha gli stessi soldi di quelli del Veneto e della Lombardia; un’Università spesso a gestione familistica e da cui gli studenti sono costretti a fuggire (a quella di Palermo mancava solo un rettore che rimane al suo posto solo per rassegnazione, perché non l’hanno voluto altrove!); una rete urbana di trasporti che è la parodia di quelle delle regioni civili…

Quel che resta della mafia, alla morte di Riina, è ancora troppo simile alla mafia per essere sopportabile. Bisogna dare un svolta, o la Sicilia affonderà del tutto. Non sono un fan di Musumeci, ma dicono che sia una persona onesta e capace: aiutiamolo a fare qualcosa per cambiare questa politica. Ci sono funzionari validi e corretti: valorizziamoli, denunziando gli altri con coraggio. E poi ci siamo noi cittadini, alcuni dei quali vorrebbero vivere in modo civile: educhiamo i nostri figli, i nostri alunni, i nostri parrocchiani, a farlo in ogni gesto quotidiano. Perché non creare reti di cooperazione – puntando su alcune realtà associative che già esistono – per combattere questa mafia, così come si è combattuta quella della lupara?

Qualcuno obietterà che sono proposte ancora insufficienti. Ma se qualcuno ha idee migliori, le dica, per favore. È il momento.