La colpa però non è degli smartphone

I chiaroscuri di Giuseppe Savagnone

È passata quasi inosservata – come la maggior parte di quelle che possono fare riflettere e perciò disturbare – la notizia che due grandi investitori della Apple, il fondo Jana Partners e il California State Teachers’ Retirement System, qualche giorno fa hanno denunciato, in una lettera, la pericolosità dell’iPhone per la salute psico–fisica dei più giovani, chiedendo alla Compagnia di avvertire i genitori della necessità di limitarne e controllarne l’uso da parte dei propri figli, anche per prevenire eventuali richieste di risarcimento per danni, come quelle promosse dai consumatori contro alcune grandi marche di sigarette. La lettera cita uno studio secondo cui il 75% degli studenti viene oggi distratto in classe dalle tecnologie digitali, e quelli di loro che hanno problemi emotivi sono saliti all’ 86%. Sempre secondo studiosi citati nel documento, gli adolescenti americani che passano 3 ore al giorno usando gli apparecchi elettronici hanno il 35% di possibilità in più di rischiare il suicidio, rispetto a chi li usa meno di un’ ora. La percentuale sale al 71% tra i ragazzi che dedicano 5 ore al giorno agli smartphone. Il pericolo di essere afflitti dalla depressione minaccia il 27% degli adolescenti che abusano dei telefonini.

Che il problema esistesse, lo si sapeva da tempo, e riguarda tutti gli smartphone. Per limitarci al nostro paese, in un documento dei pediatri italiani si legge: «Basta cellulari ai bambini, sono pericolosi. Insieme alle altre dipendenze che affliggono la nostra società e specialmente i giovani, quali droga, alcool e fumo, un posto predominante lo ha conquistato la dipendenza da telefonino, con danni gravissimi sullo sviluppo psichico e sociale».

In realtà la minaccia si profila già nei primissimi anni di età. Da una ricerca fatta dal Csb, Centro per la salute del bambino onlus di Triesteassieme all’Associazione culturale pediatri, risulta che il 30,7% degli intervistati ha dichiarato di lasciare qualche volta, o spesso, il cellulare in mano al figlio prima dei 12 mesi! E la percentuale sale al 60% se si parla della fascia di età fa i 12 e i 24 mesi.

Ora, psicologi e pediatri sono concordi nell’avvertire che, al di sotto dei due anni, le interazioni dirette dei bambini con i genitori e il mondo che li circonda sono indispensabili per garantire il loro sano sviluppo a livello cognitivo, emotivo e relazionaleIn particolare, sembra dimostrato il nesso tra l’eccessivo utilizzo di queste tecnologie in età prescolare e la presenza di ritardi del linguaggio e disturbi cognitivi.

Da parte loro, i più piccoli trovano molto più facile esprimersi attraverso dei messaggini piuttosto che facendo la fatica di articolare con la voce i loro stati d’animo e, via via che si sviluppano, i loro pensieri. Inviare una faccina sorridente è più semplice che dire di essere contento. Ma in questo modo si rischia di abituare i bambini, e poi gli adolescenti, a semplificare paurosamente non solo le loro capacità espressive, ma anche la gamma emozionale che sta a monte dei messaggi. E, conseguentemente, il loro universo relazionale.

Senza dire che, col passare degli anni, la convivenza stabile, in solitudine, con lo smartphone comporta una disabitudine ad usare tutti i sensi, a correre, a sviluppare la manualità. Giocare all’aria aperta, interagire con i propri coetanei, sono azioni fondamentali per lo sviluppo del cervello e per il corpo di un bambino. E’ anche dalla loro forte diminuzione deriva la tendenza a sviluppare sovrappeso e obesità, che in Italia ormai colpiscono un terzo circa dei bambini fra gli 8 e i 9 anni.

Il fatto è che smartphone e tablet sono ormai uno strumento infallibile a cui i genitori possono ricorrere per distrarre i loro figli in tenera età, calmarli quando fanno capricci, tenerli occupati in modo da poter continuare a svolgere le loro attività (magari per poter parlare con calma al loro cellulare…). Come è stato per le generazioni precedenti, e in parte ancora accade, con la televisione. Una specie di droga.

Gli effetti deleteri dell’abuso dello smartphone riguardano, peraltro, anche gli adolescenti e i giovani, riducendo sia le loro capacità di concentrazione e di comprensione, sia le loro attitudine relazionali. Ormai è raro che uno di essi assista a un film o a un qualsiasi altro spettacolo senza intercalare la visione con una consultazione più o meno durevole del proprio cellulare. E diventa sempre più frequente vedere ragazzi e giovani che, nel gruppo, oppure a tavola, in famiglia, sono assorti nello scambiarsi messaggi con interlocutori invisibili invece di parlare con quelli presenti in carne ed ossa. Che è la fine della comunicazione. E del resto, se si cresce dalla più tenera età con lo smartphone come “coperta di Linus”, è difficile distaccarsene.

Tanto più che, a differenza della droga, le nuove tecnologie rappresentano anche un’importante opportunità, di cui anche noi adulti non possiamo più fare a meno per comunicare. Tutto ciò che si è detto fin qui sui loro rischi non deve fare dimenticare che anche l’innovazione della scrittura sembrò a Platone, nel IV sec. a. C., una drammatica minaccia, che rischiava di distruggere l’immediatezza del dialogo personale. Ma la prova dell’inutilità di queste resistenze al progresso è che noi conosciamo le sue critiche perché le mise per iscritto.

Il problema in realtà non è lo smartphone, ma l’uso che ne facciamo. Quando smartphone e tablet (come del resto la televisione) vengono usati dai più giovani in modo appropriato, condividendone la fruizione con i genitori e imparando da essi a gestirli correttamente, possono essere utili non solo per comunicare o svagarsi, ma anche per lo sviluppo di alcune competenze. Alla base della loro attuale pericolosità c’è l’incapacità degli adulti di servirsene, loro stessi, nel modo giusto e di investire il loro tempo e la loro attenzione per insegnare ai loro figli a farlo. Le due cose sono strettamente connesse e confluiscono nella drammatica “emergenza educativa” che oggi colpisce non i giovani, come a volte si crede, ma i loro educatori.

Per questo appare estremamente problematica la decisione del ministro Fedeli di abolire il divieto di usare gli smartphone a scuola, senza prima affrontare seriamente il problema del crollo di tensione educativa nel nostro sistema scolastico. È verissimo, come la Fedeli ha spiegato per motivare la sua scelta, che gli smartphone possono essere un prezioso strumento di apprendimento e che, invece di lasciare che i ragazzi si trovino da soli ad utilizzarlo, è assai meglio che vengano educati a farlo sotto la saggia guida degli insegnanti. Lo stesso, però, vale anche in famiglia, con l’esito che abbiamo visto. Perché di fatto, questa saggia guida là non c’è. E niente lascia supporre che possa esserci in una scuola in cui spesso il massimo che si riesce a realizzare, nel migliore dei casi, è una trasmissione di conoscenze, non una vera educazione delle persone.

A questo punto, l’impatto dell’introduzione dello smartphone rischia di riprodurre in classe gli stili sbagliati che ci sono fuori, eliminando la sola “isola” in cui ancora un ragazzo è obbligato a rinunziare alla marea potenziale degli stimoli a cui il suo cellulare gli dà accesso, a cercare di concentrarsi su un discorso, senza consultare maniacalmente ogni cinque minuti lo schermo e a parlare faccia a faccia con gli altri. Il ministro ha detto che la scuola non deve essere un mondo separato dalla società. Ma farne la fotocopia, negli aspetti deteriori, non ci sembra una buona idea.