L’Arcivescovo invita a fidarsi l’uno dell’altro

In questo momento così drammatico e imprevisto, sento il desiderio di scrivere a voi, sorelle e fratelli della Città di Palermo, e a tutti voi che leggerete queste poche righe, dovunque siate.

Fino a pochi giorni fa non pensavamo che le nostre città sarebbero diventate un deserto, gli ospedali si sarebbero trasformati in campi di guerra, le porte delle nostre case sarebbero rimaste blindate. Una situazione nuova: tanto tragica e pericolosa quanto inattesa e imprevedibile.

Il Coronavirus si è abbattuto su di noi con la violenza di una guerra mondiale. Ogni mattina ci chiediamo: a che punto è il nemico? Quante vittime ha mietuto e quante ne mieterà? Quanto è distante da noi, da me? E ci sale alle labbra la domanda del profeta: «Sentinella, quanto resta della notte? Quanto all’alba?» (Is 21, 11).

Il Coronavirus, infatti, ha stravolto in modo violento le nostre abitudini. È diventato pericoloso darsi la mano, uscire di casa, riunirci per vivere l’amicizia e gli affetti. Per i cristiani è impossibile pregare assieme e celebrare l’Eucaristia. È vero. Ci sentiamo più uniti. Ma è un’unione che nasce dalla paura e che ci può portare facilmente alla chiusura nei confini della «patria» (è il grande rischio europeo e planetario oggi) o a combattere drammatiche lotte per la sopravvivenza (come si evoca da più parti di fronte al possibile espandersi della pandemia).

Ad indicarci una strada in questo momento tragico sono però la serietà e la nobiltà del «prendersi cura» sanitario. La sacralità della missione medica oggi brilla e ci rende grati e fieri di avere sorelle e fratelli che rischiano la vita per salvare altri. Sono loro che in questo momento così terribile cantano la nobiltà e la grandezza dell’uomo. E poi c’è la politica. I governanti sono soggetti spesso al nostro stesso sgomento e provano quasi imbarazzo a darci direttive chiare e decise. Ma è bene ricordarci che il Coronavirus impone un nuovo modello relazionale. Bisogna che i governanti ci diano direttive univoche e che noi, giustamente abituati al dialogo, alla discussione, all’obiezione, cambiamo stile e impariamo in questi giorni ad «ubbidire». I giovani soprattutto vanno aiutati a comprendere questo cambiamento. Li abbiamo educati a pensare, ad essere creativi, autonomi: ora, in questi mesi, è il tempo dell’ubbidienza, che non significa prostrazione ma capacità di ascolto di chi ha una responsabilità superiore per il bene di tutti.

Ci viene chiesto anzitutto di restare a casa. Non c’eravamo più abituati. Senza un impegno fuori dalle mura domestiche ci sentivamo fuori gioco. Adesso bisogna cambiare registro. Riscopriamo insieme nuovi modi di incontrarci. Come ho scritto ai giovani: non possiamo darci la mano, ma possiamo fare incontrare le nostre anime in tanti altri modi. Possiamo moltiplicare gli sguardi, far sentire e sentirci “visti” dall’altro. Questo aiuta a vivere, a sentire i corpi vicini anche senza toccarsi. Senza dimenticare mai quelli che una casa non ce l’hanno e tutti coloro per cui la casa è un luogo di conflitto di dolore e di fatica. Sono vicino a loro con particolare affetto.

Se penso alla Bibbia e ai suoi racconti, mi pare di potervi dire che tutta l’umanità in questi giorni sta diventando Giobbe e si chiede perché. Perché è successo? Perché le persone più fragili vacillano e cadono? Perché tanti senza lavoro sperimentano il peso dell’andare avanti quotidiano? Perché la vita si blocca e pare sconfitta? A queste domande nessuno ha una risposta. Possiamo solo riflettere insieme sul modo in cui far fronte alla sofferenza. Non siamo proprietari di questa Terra e neppure della vita. Mettiamo in crisi l’orgoglio e la paura. Perché non saranno le nostre paure a proteggerci né il nostro orgoglio a costituire un’uscita di sicurezza.

Confidare, affidarsi, è l’atteggiamento richiesto ai credenti. Oggi più che mai esso appare attuale nella vita di tutti: fidarsi dell’altro, fidarsi della vita, fidarsi di Dio. Mettere la nostra angoscia e il nostro dolore accanto a quello di tutti e davanti a tutti, sperando con forza, come quel povero curato di campagna dalla fede oscura e immensa, che infine «tutto sia grazia».

Vi affido anch’io: a Dio Padre che custodisce e contiene le paure, al Figlio che ci è stato compagno fino in fondo, allo Spirito che genera e mantiene le relazioni e trasforma le nostre grida in invocazione al Padre, a Maria che non si è lasciata prendere dal panico nemmeno sotto la croce, e a Rosalia vincitrice della peste e emblema di unità, lei venerata nelle valli di Como come a Palermo (persino dagli indù), quasi a ricordarci la comunanza del nostro destino e della nostra speranza. Consoliamoci gli uni gli altri, secondo l’esortazione di San Paolo, e sentiremo la consolazione di Dio, che auguro a tutti di cuore abbracciandovi con affetto di fratello e di padre.

#ChiCiSeparera

#SantuzzaLiberaci