Le vittorie di Pirro di chi spacca il Paese

I chiaroscuri di Giuseppe Savagnone

Tutti esultano. Salvini e la Lega per il decreto sicurezza, che finalmente mette nero su bianco il contenuto di mesi di campagna elettorale (anche successiva all’avvento al governo) centrata sull’avversione viscerale nei confronti dei migranti; Di Maio e i 5stelle per il varo del reddito di cittadinanza, malgrado la strenua opposizione del loro stesso ministro dell’economia, Tria, che lo giudica una minaccia per la stabilità delle nostre finanze. In questo tripudio generale, c’è da chiedersi se abbia motivo di esultare anche l’Italia.

Ho, in proposito, dei seri dubbi. Prescindendo dalle questioni di merito, ne espongo qui soltanto uno, relativo all’atteggiamento di fondo che i due partiti di governo hanno avuto costantemente sia prima che dopo le elezioni. Potremmo sintetizzarlo con la parola “manicheismo”: tutto il bene da una parte (la loro), tutto il male dalla parte degli altri. La civiltà politica del nostro Paese sembra cominciata con il “contratto” fra di Maio e Salvini (“Per la prima volta nella storia”… abbiamo sentito ripetere). Prima di loro, a quanto pare, solo corruzione, privilegio, incompetenza, malafede. L’Italia sarebbe stata ostaggio di una banda di predoni, da cui finalmente loro venivano a liberarla.

Ma è veramente così? Certo, in una stagione di crisi, di disoccupazione, di profondo malessere sociale, non è stato difficile fare leva sul risentimento della gente, alimentando la cultura del sospetto e additando dei colpevoli su cui scaricare la propria rabbia. Ma è questa la dialettica democratica fra le forze politiche?

È chiaro che nelle accuse mosse ai governi precedenti c’è molto di vero. Ma, a parte il fatto che quello che hanno realizzato non è tutto da buttar via (e lo dice qui uno che li ha molto criticati, in tempi non sospetti), almeno la Lega – che ha occupato per lunghi anni un ruolo in quei governi, contribuendo abbondantemente alla crisi che oggi denunzia – avrebbe dovuto avere l’onestà di riconoscere le sue gravissime responsabilità (i 49 milioni euro rubati alla comunità sono solo la punta dell’iceberg!), tanto più che ha continuato a mantenere la sua alleanza con Berlusconi, uno dei simboli della Seconda Repubblica. E tra gli elettori più fanatici dei 5stelle ce ne sono molti che in un recente passato hanno votato a lungo per mantenere al potere quella casta, anche quando era chiaramente squalificata (magari sperando di avere rimborsata l’Imu…). In ogni caso, le demonizzazioni sono sempre unilaterali, perché misconoscono la mescolanza che sempre c’è tra bene e male nelle cose umane.

Non si è trattato, peraltro, solo di eccessi verbali funzionali alla campagna elettorale. Questo stile è stato mantenuto anche dopo che Lega e 5stelle hanno vinto le elezioni e ha caratterizzato il clima della formazione del nuovo governo. Alla base del loro comportamento c’è stata la pretesa di essere gli unici a porsi dalla parte dei cittadini, denunciando le subdole manovre diversive dei nemici del cambiamento. Si pensi alla reazione scomposta e sconsiderata contro il presidente della Repubblica, che svolgeva semplicemente le sue funzioni istituzionali, fino a chiederne l’impeachment (i 5stelle) e a definirne «disgustoso» il comportamento (Foa, di fatto portavoce di Salvini).

I toni non sono cambiati – e questo è ancora più grave – quando Lega e 5stelle sono andati al governo. Di solito chi vince e conquista il potere ci tiene a sottolineare lo stacco, rispetto allo stile elettorale, inevitabilmente fazioso, per rassicurare gli avversari sulla propria imparzialità nella gestione della cosa pubblica. Ci tiene, insomma, a far capire che ormai, nel nuovo ruolo di governanti, è intenzionato a rappresentare tutti, e non solo i propri sostenitori. E questo comporta, sul piano concreto, lo sforzo di dare spazio alle opposizioni, di ascoltarne la voce, di moderare le proprie pretese iniziali accogliendo nei limiti del possibile qualche correzione di rotta richiesta dagli “altri”.

Tutto questo non è accaduto con il nuovo governo, che ha risposto ad ogni obiezione critica con un duro «Noi tireremo diritto» o, in alternativa, «Nessuno ci fermerà». È il linguaggio di chi si ritiene investito di una missione di vestale della verità e della giustizia, esaltato anche dal crescere dei consensi sulle piazze e nei sondaggi.

Non si è trattato, peraltro, solo di parole. I vincitori, che avevano a gran voce stigmatizzato la corsa alle poltrone da parte degli uomini della casta, in questi pochi mesi si sono gettati come lupi su tutte le nomine disponibili, occupando sistematicamente i posti dell’apparato pubblico (e qualcuno “liberandolo” a forza), sempre in nome del fatto che bisognava liquidare i traditori del popolo italiano e mettere al loro posto gente seria e onesta (che, guarda caso, erano sempre i loro seguaci).

Si è così instaurata una specie di dittatura della maggioranza (peraltro relativa, stando ai voti del 4 marzo: il 49%), sprezzante di tutti gli altri, che ha spaccato in due il Paese e determinato un clima di scontro civile mai registrato, neppure al tempo delle lotte tra comunisti e democristiani. Allora, infatti, c’era da entrambe le parti la consapevolezza della buona fede degli altri, mentre ora la lotta sarebbe tra i “buoni”, gli “onesti”, coloro che stanno dalla parte della gente, da una parte, e i mascalzoni, i privilegiati, coloro che hanno portato l’Italia alla rovina per fare i loro interessi, dall’altra.

Ora, un simile clima è già in sé stesso, a prescindere dal merito delle decisioni prese, impregnato di violenza. Minacce e ricatti, come quelli rivolte tramite Casalino ai funzionari del ministero dell’economia, rei di non voler falsare i conti pubblici per venire incontro ai diktat dei “vincitori”; sopraffazioni e arroganza, come quella che ha consentito alla Lega di imporre il nuovo presidente della Rai, malgrado il voto negativo del consiglio di vigilanza; violazione, all’interno della stessa compagine governativa, delle rispettive competenze da parte di un unico “uomo forte”, che fin dall’inizio ha sostituito in tutto il premier e molti dei suoi colleghi ministri (l’ultimo caso è quello di Tria), adombrando una tacita forma di dittatura personale.

È il contrario di ciò che un governo democratico deve cercare di realizzare. Ammesso – e non concesso – che le scelte di Salvini e Di Maio non portino il nostro Paese alla catastrofe finanziaria e politica, saranno necessari molti anni per recuperare una cultura minima della convivenza rispettosa, del dialogo e della cooperazione solidale.

Senza dire che, su questo terreno avvelenato, potrebbero prima o poi fiorire, per reazione forme ulteriori e più gravi di violenza. Chi non ha voce in un dialogo “democratico” falsato, prima o poi la fa sentire fuori di esso. In un Paese in cui il parlamento è ridotto a un’ombra dell’esecutivo (e del resto i “vincitori” dicono senza giri di parole che esso non ha più alcuna funzione); in cui i partiti di opposizione non hanno alcuna capacità di interpretare il malessere del 40% della popolazione (ipotizzo qui che i sondaggi, che danno il consenso al governo al 60%, siano del tutto attendibili); in cui gli immigrati, invece di essere integrati, vengono trattati da delinquenti e spinti a diventare tali dalla chiusura delle porte della cittadinanza; in cui gli evasori e i ricchi vengono premiati, e i poveri consolati con un’elemosina che prima o poi rivelerà la sua insufficienza, la pace sociale rischia di essere scossa da esplosioni incontrollate, la cui responsabilità ricadrebbe anche su questi governanti, così accecati da non vedere che i loro trionfi sono una vittoria di Pirro.