Ma le poltrone sono davvero maledette?

I chiaroscuri di Giuseppe Savagnone

«Per la prima volta nella storia»

Uno degli slogan che hanno caratterizzato la polemica dei partiti «del cambiamento» contro i membri della “casta”, è stata l’accusa di essere «attaccati alle poltrone».

Lo ritroviamo spessissimo sulle labbra degli esponenti dei 5stelle, nella loro aspra contestazione della classe politica e dei partiti in blocco. Così, senza la minima esitazione, Luigi di Maio, durante le trattative in corso con la Lega per la formazione del nuovo governo, poteva dichiarare: «Per la prima volta nella storia si porta avanti una trattativa che mette al centro i temi che rappresentano tutte le esigenze degli italiani e questo ci rende ancora più orgogliosi».

Durante il governo Conte 1

In realtà anche in seguito la formula è ritornata, come un mantra, in bocca ai leader di entrambi i partiti, stavolta usata come arma polemica dell’uno contro l’altro. All’indomani del flop dei pentastellati alle elezioni regionali del Friuli, Di Maio si sfogava contro gli altri partiti: «Hanno pensato solo alle loro poltrone».

Di rimando, Salvini esibiva il suo distacco dalle poltrone come strumento di pressione sull’alleato: «O da adesso arrivano tanti sì o altrimenti noi non abbiamo tempo da perdere. Non accetterò più un minuto di stare al Governo con chi dice no. La Lega non è nata per rimanere attaccata alle poltrone».

E, ancora: «In ogni caso noi siamo gli ultimi ad essere attaccati alla poltrona, se ci dovessimo rendere conto che non si riesce a lavorare».

Chi è, alla fine, davvero attaccato alla propria poltrona?

Con la crisi di governo, il tema della «fame di poltrone» è stato al centro degli attacchi rivolti dall’ex ministro degli Interni al premier Conte e soprattutto ai 5stelle: «Grillini servi, venduti. Ho sottovalutato la loro fame di poltrone. Invece io ho valori e dignità, gli italiani sono con me, tornerò».
Dove, per la verità, si deve riconoscere che il problema delle poltrone è stato davvero al centro delle trattative per la formazione del nuovo esecutivo, soprattutto per la resistenza dell’ex vicepremier Di Maio – sì, proprio lui che aveva sempre denunciato l’attaccamento altrui! – a cedere la sua: «Quel ruolo mi spetta, anzi ci spetta. Non mollo di un millimetro e Conte dovrà risolvere questo impasse», aveva ripetuto ostinatamente, al punto da suscitare una reazione dello stesso Grillo nei suoi confronti: «Basta parlare di poltrone. Sono esausto».

In realtà, anche la lotta disperata di Salvini per non abbandonare il governo e in particolare il suo posto di ministro degli Interni ha avuto tutta l’aria di una difesa all’ultimo sangue della “poltrona”.

L’addio ad essa sembra sia stato straziante, e comunque accompagnato dalla promessa che la separazione sarebbe stata breve. (Naturalmente, in questo caso, a differenza di tutti gli altri, l’attaccamento è dovuto al desiderio di fare gli interessi dei sessanta milioni di italiani che il leader leghista sostiene di rappresentare).

Cosa sta dietro questo slogan?

Al di là di queste contraddizioni di chi ha lanciato e tiene viva la campagna contro l’«attaccamento alle poltrone», varrebbe forse la pena di chiedersi che cosa significhi veramente questo slogan, per non rischiare di usarlo anche noi come scontato, accettando, inconsapevolmente, una visione della politica che va per lo meno discussa.

Il rifiuto di ogni mediazione

Secondo questa visione – comunemente denominata “populismo” – ogni intermediario che si ponga tra il popolo e l’esercizio effettivo del potere politico – rappresentanti in Parlamento, magistrati, burocrati, tecnici, intellettuali, giornalisti – lo fa sempre in funzione dei propri interessi, che non coincidono affatto con quelli del popolo.

Il ruolo di queste persone può perciò definirsi con la metafora della “poltrona”, sinonimo di sistemazione gratificante per chi vi si siede, ma superflua, anzi nociva, per il bene della comunità.

Da qui, a prescindere dal merito delle singole questioni e dal comportamento delle singole persone, un atteggiamento di insofferenza e di sospetto verso chiunque si trovi a svolgere un compito istituzionale, considerato per ciò stesso come un non-appartenente al popolo.

La crisi della democrazia rappresentativa

Da qui anche la tendenza – teorizzata dai 5stelle ma ampiamente diffusa anche nella “base” leghista – a nutrire una pregiudiziale sfiducia verso chi siede su una “poltrona” e a diffidare delle sue intenzioni.

Una tendenza sempre più radicata in una società che è stata definita «la “società della sfiducia”», perché in essa la corsa senza scrupoli e senza vergogna al successo individuale, in nome dei princìpi del mercato neocapitalistico, distrugge la possibilità di fidarsi gli uni degli altri.

Tradotto nel linguaggio politico, la sfiducia diventa il rifiuto della rappresentanza su cui si fondano le democrazie occidentali odierne. Non ci si può affidare ad alcun rappresentante, ad alcuna autorità intellettuale, ad alcun competente.

Nella migliore delle ipotesi – come tendono a fare i 5 stelle con i propri parlamentari – li si considererà dei «fannulloni», a cui chiedere di limitarsi a ratificare le decisioni prese dalla “base”, gli iscritti alla piattaforma Rousseau, non eletti da nessuno e quindi non soggetti al sospetto verso i “mediatori”.

La sfiducia paga

Anche al di fuori dell’ambito politico oggi trova immediata approvazione e grande seguito chiunque – sostenuto da adeguati strumenti mediatici – scende in campo con la pretesa di smascherare i pretesi “esperti”. Come sta facendo il giornalista Adriano Panzironi (mai laureato in medicina) con la sua accusa alla classe medica di nascondere al grosso pubblico la possibilità di vivere fino a 120 anni seguendo una dieta di sua invenzione. Perché «sfruttare la sfiducia è più facile e vantaggioso che generare e promuovere fiducia» (Diamanti-Lazar).

Molto più facile e vantaggioso. L’improvvisato stregone della longevità – che promette fra l’altro la cura immediata di malattie come il diabete, per cui la scienza ufficiale, quella dei medici “attaccati alla loro poltrona”, non conosce ancora rimedi decisivi – ha guadagnato con le sue accuse alla medicina ufficiale decine di migliaia di seguaci pronti a giurare sulla malafede dei medici di professione, e ricava dalla vendita dei suoi farmaci, propagandati dalla sua rete televisiva, centinaia di migliaia di euro.

Le polemiche sulle poltrone alla base del consenso del “governo del cambiamento”

Anche in politica «la sfiducia è diventata la principale risorsa del consenso». Il “governo del cambiamento”, col suo indiscriminato linciaggio di tutti coloro che avevano fatto politica in passato, ne ha ottenuto uno eclatante fin dai suoi primi passi e l’ha mantenuto fino alla sua fine prematura, malgrado ai suoi proclami bellicosi contro i “nemici” abbia corrisposta in realtà una sostanziale inconcludenza nell’affrontare i reali problemi del Paese e, in campo internazionale, una serie ininterrotta di fallimenti (dallo spread salito alle stelle fino al totale ridimensionamento in Europa).

Ma quel che ha contato è stata la grinta da “macho” con cui “il capitano” (invece di andare alle riunioni per concretizzare nuovi accordi con i suoi colleghi europei) ha chiuso i porti ai migranti ed è andato in giro per le piazze e i salotti televisivi a dire che finalmente ci stavamo facendo ascoltare dai burocrati di Bruxelles, comodamente assisi sulle loro poltrone e intenti solo a sfruttare gli italiani.

Ma le élite non fanno parte del popolo?

Ma è così sicuro che il popolo sia riducibile alla massa informe ed omogenea a cui i populisti lo riducono, escludendo da esso – anzi contrapponendogli – tutte le articolazioni in cui esso si esprime a vari livelli (inclusi quelli di solito chiamati “élite”)?

Siamo sicuri che i parlamentari eletti dagli italiani, i magistrati, i funzionari dei ministeri, i giornalisti, non siano anch’essi “popolo”? Che non ne siano anzi una espressione particolarmente qualificata per il servizio nei rispettivi ambiti?

E le loro “poltrone” non sono posti di servizio alla comunità?

Perché, se così fosse, le loro “poltrone” altro non sarebbero se non i posti di lavoro a cui essi siedono non per fare i loro interessi, ma per spendere le proprie competenze, faticosamente acquisite con lo studio e con la pratica, in favore degli altri cittadini, membri dello stesso popolo.

I quali, prima di “sparare” i loro trancianti giudizi sui social, forse dovrebbero imparare ad avere quella elementare umiltà che ci rende consapevoli di aver bisogno di altri, più competenti, del cui giudizio tener conto, fino a prova contraria.

Naturalmente sappiamo dall’esperienza che sulle poltrone possono sedere anche persone indegne, che sono davvero attaccate ad esse solo per il proprio tornaconto. Ma bisogna allora valutare caso per caso e non condannare a priori chi, avendo acquisito delle conoscenze e delle esperienze, le mette a disposizione della comunità.

La rinunzia dei 5stelle alla regola del “secondo mandato”

Da questo punto di vista non sorprende che anche i 5stelle abbiano dovuto rinnegare (sia pure con la ridicola formula del “mandato 0”) la ferrea regola del “secondo mandato” per i loro consiglieri comunali, riconoscendo che il patrimonio di esperienze fatte nel corso dei primi due poteva essere, in un terzo, una risorsa per tutti.

Ritorno alla fiducia

Forse sarebbe il caso di smetterla, allora, di gridare alla «fame di poltrone» (degli altri…) e di guardare alle persone, ai fatti, alla realtà, informandosi e riflettendo, invece di basarci sugli slogan.

Anche se questo è assai più impegnativo e richiede un lungo processo di maturazione dell’opinione pubblica. Ma credo che, pur vivendo nella “società della sfiducia”, in questo momento delicatissimo dobbiamo correre il rischio di tornare ad avere fiducia negli italiani.