Un Sinodo per l’Italia

Convinzione semplicistica. Una «risposta» politica dei cattolici alla crisi del Paese sarebbe, oltre che un errore, un otre vecchio per un vino nuovo

Caro direttore, la sinodalità esprime la natura stessa della Chiesa. La sua riscoperta, dovuta al Concilio Vaticano II, ha corso però nei decenni passati il rischio di vedersi ridurre a una discussione più o meno blanda su modalità applicative o forme esterne dell’esercizio sinodale. Così facendo si è persa però di vista la sostanza profonda delle cose, a cui Papa Francesco ci ha fortemente richiamati. Perché sin dalle origini dire «Sinodo» ha significato manifestare la nostra realtà ultima di credenti posti in cammino, insieme, gli uni accanto agli altri, sulla via dell’Evangelo del nostro Signore, in ascolto e in ricerca dei suoi modi di manifestarsi nella storia. I cristiani infatti partecipano alla vicenda umana in questa forma sinodale del loro essere, del loro parlare, del loro interrogarsi su che cosa significhi vivere il Vangelo nel tempo concreto di una determinata fase o età della convivenza umana, come quella di oggi, così spiccatamente planetaria e interconnessa.
Il Sinodo non è dunque una modalità di esercizio del potere, ma un evento liturgico della Chiesa di Dio che chiede al suo Signore l’effusione dello Spirito, capace di illuminare i suoi passi e di indicarle le strade della testimonianza viva. Non si tratta di una disputa gerarchica, ma di una scoperta sempre nuova del nostro essere radicalmente discepoli di Gesù, al di là di ruoli, carismi e ministeri. In questo senso, il Sinodo è una sorta di rivoluzione permanente, perché chiama la Chiesa a una continua conversione rispetto alle scorciatoie del potere, del clericalismo, del successo, della sordità davanti al gemito dello Spirito che risuona nella liturgia sinodale.Credo che solo partendo da questi presupposti sia possibile intendere e attuare l’appello sinodale del Santo Padre, dinanzi alla situazione mondiale e in particolare alla condizione dell’Italia e della Chiesa italiana. Certo, il nostro Paese pare afflitto da una perdita di sensibilità umana, di consapevolezza culturale, di coesione sociale, di credibilità della rappresentanza politica, che lasciano in certe occasioni quasi sgomenti, come è accaduto e accade rispetto al fenomeno epocale della migrazione, utilizzato spregiudicatamente quale semplicistico capro espiatorio di mali ben più complessi e radicati. Ma non bisogna, almeno dal mio punto di vista, indulgere ad affrettate e superficiali analisi sociologiche o politologiche. La vita profonda delle persone si colloca ben al di là di ogni semplicistica separazione tra élites e popolo, tra gente e classi dirigenti, specialmente in un tempo come il nostro, segnato da una orizzontalità inedita della comunicazione e delle relazioni. C’è molto altro che pulsa nelle esistenze concrete, ben oltre i social media e le dichiarazioni online; ed è questa vita che siamo chiamati a cogliere e ad ascoltare. In essa c’è il germe del bene, della condivisione, del cambiamento possibile, della speranza ancora aperta.

Intendo dire che una veloce e semplicistica convinzione sulla necessità di una «risposta» politica dei cattolici alla crisi dell’Italia sarebbe, oltre che un errore, un otre vecchio per un vino nuovo. Non è il momento e non ha alcun significato reale l’idea di una chiamata alle armi, di un progetto di riconquista, di una nuova formazione politica dei «cattolici». Siamo in mezzo alla storia come gli altri, facciamo parte dello stesso popolo, con le sue debolezze e le sue risorse. Collocarsi fuori, pensare a un’azione «politica» dall’esterno sarebbe un fraintendimento decisivo.

L’assetto sinodale è a mio modo di vedere l’unica risposta giusta, se pensiamo etimologicamente al respondere come a un autentico «farsi carico». Fare Sinodo oggi è caricarsi delle attese, delle ansie, dei dolori e delle fatiche di tutti e collocarle davanti a Dio, per farci dire dallo Spirito in che modo oggi dobbiamo essere discepoli di Gesù di Nazareth. Per far questo credo ci voglia una forma reale e forte dell’esperienza sinodale. L’ho vissuta da prete della Diocesi di Noto, quasi venticinque anni fa, grazie alla luminosa intuizione del mio vescovo e padre conciliare, Monsignor Salvatore Nicolosi. Bisogna infatti superare e vincere la tentazione di un Sinodo come evento di quadri. Il Sinodo deve coinvolgere i fedeli nella maniera più reale e più larga: sia nell’ascolto e nella seria consultazione, sia nella scelta dei rappresentanti sinodali, che a Noto per esempio si elessero durante le assemblee eucaristiche domenicali, intese come il luogo in cui i cristiani comuni si ritrovano ogni domenica per celebrare la loro fede ordinaria e trovare alimento e forza per la quotidianità dell’esistenza.

Per raccogliere davvero l’appello del Papa è necessario che si mettano in atto tutte le forme e tutte le misure possibili per dare la parola alla Chiesa, per far scegliere la Chiesa, il popolo santo di Dio, fatto spesso da tante persone che non ne sanno nulla dei nostri dibattiti e delle nostre tensioni, ma vivono ogni giorno a loro modo la fede in Gesù. Se riusciremo a formare un’assemblea sinodale con queste caratteristiche, potremo avviare un confronto sinodale aperto, franco, senza infingimenti o ipocrisie, nella cornice costitutiva della liturgia che dà senso a tutto. Indicazioni, decisioni, orientamenti, sempre liberi e variegati, usciranno da lì, da questo evento di grazia e di conversione, e non di pura, sterile separazione tra maggioranza e minoranza.

Un Sinodo così concepito e realizzato ritengo sia urgente per la Chiesa italiana e rappresenti per tutti noi un evento benedetto, in risposta all’appello di Papa Francesco. Ma mi sia consentito dire che un Sinodo autentico, o meglio una autentica manifestazione della natura sinodale della Chiesa, sarebbe oggi anche un modo concreto di creare un modello di spazio pubblico vivo e reale, alternativo allo strepitio e al chiacchiericcio mediatico. Come una forma di conversione collettiva (e istruttiva) al primato dell’ascolto dell’altro e della relazione reale e rispettosa tra diversi.

S.E. Mons. Corrado Lorefice
Arcivescovo di Palermo
(Corriere della Sera –