Inizio Ministero Pastorale di S.E.R. Mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo

Messaggio al termine della celebrazione
05-12-2015
 Care Sorelle, Cari Fratelli,

mi rivolgo a voi stasera con grande emozione e con profonda gioia. A voi, che siete il popolo santo di Dio della Chiesa di Palermo – che da stasera diventa la mia diletta –, e alla quale fate, direi, scorta e corona quanti dalle care Chiese di Sicilia, dalla mia amata Chiesa di Noto, da ogni altra Chiesa, da ogni altro luogo o esperienza, siete qui, insieme con noi, a dare un senso di amicizia e di compagnia nella fede a questa celebrazione, a questa festa. A tutti dico ‘grazie!’. In primo luogo a chi questa Chiesa stasera mi consegna dopo avervi lavorato con amorevole dedizione: a Te, carissimo cardinale Paolo Romeo; e a te vescovo co-consacrante, a me carissimo, Don Paolo De Nicolò; allo stimato cardinale Salvatore De Giorgi che ha servito come amabile pastore questa Chiesa; e a voi fratelli vescovi, che avete voluto essermi accanto in questo momento decisivo della mia vita, in particolare al mio vescovo Antonio Staglianò, a cui va un pensiero grato per la stima da sempre manifestatami; a voi tutti seminaristi (da sempre cari al mio cuore), a voi diaconi, a voi presbiteri che con la vostra presenza mi avete voluto manifestare la vostra grande partecipazione a questo evento; a voi religiose, religiosi, membri degli istituti secolari, che siete accorsi nella nostra Cattedrale numerosi, con affetto. E poi un ‘grazie’ sentito anche a voi, rappresentanti delle altre confessioni cristiane, della comunità ebraica e della comunità islamica che con squisito (e da me graditissimo) pensiero avete scelto di essere qui in questo giorno: a dirmi la vostra vicinanza, a darmi la vostra preghiera. Il dialogo con tutti voi sarà fondamentale per me in questi anni avvenire: sarà un’urgenza e una gioia.

‘Grazie’ a voi rappresentati della Città e delle Istituzioni, nei diversi uffici e nelle molteplici forme. ‘Grazie’ infine (ma vorrei dire ‘in principio’) a tutti voi che indipendentemente da ogni appartenenza, da ogni ruolo, da ogni credenza, siete affluiti qui stasera come donne e uomini spinti semplicemente dal desiderio di esserci, qui a rappresentare simbolicamente per me l’umanità intera nella sua dignità, nella sua essenziale tensione a stare insieme, a partecipare alla cosa di tutti.

Vengo in mezzo a voi anzitutto come un uomo che vuole condividere i suoi sentimenti e la sua storia. Sono nato a Ispica, in una piccola città siciliana, da una famiglia ‘naturalmente’ cristiana (che amo immensamente e che saluto di cuore); mi sono formato alla scuola di mons. Salvatore Nicolosi, grande vescovo del Concilio, a cui devo tanto (e io so che stasera lui – tangibilmente presente nel segno della croce pettorale che porto – nella comunione dei santi ci benedice); ho studiato a Noto, – mentre era rettore mons. Giuseppe Malandrino, poi divenuto mio vescovo – a Catania, a Roma, a Bologna; ho servito il seminario della mia diocesi insieme al mio carissimo amico don Rosario Gisana, ora vescovo di Piazza Armerina; ho insegnato teologia morale presso lo Studio teologico San Paolo di Catania; sono stato parroco di San Pietro in Modica per sette meravigliosi anni e dall’anno scorso anche della Parrocchia S. Paolo Apostolo. Ho avuto modo di frequentare l’Africa, l’America Latina e il Medio Oriente, in particolare, ultimamente, la Siria. Ma appunto per questo, perché questa è stata sinora la mia vita, così bella, così intensa e così normale, proprio per questo la scelta operata dal vescovo di Roma, da papa Francesco – che qui ricordo insieme a voi con grande affetto – la scelta, dicevo, di affidarmi la Chiesa di Palermo mi ha in un primo tempo spiazzato. Non vi nascondo il travaglio e l’agitazione che hanno segnato per me i primi giorni dopo l’elezione, così come non intendo celare a voi la trepidazione che vivo costantemente. Ma accanto a tutto ciò, giorno dopo giorno, ho sentito crescermi dentro, mentre venivo travolto dall’affetto, dall’amicizia, dalla solidarietà di tanti di voi, un senso di confidenza, una speranza sempre più forte: la sensazione di prepararmi alla consegna definitiva della mia esistenza a colei che diventava la mia sposa, da amare fedelmente, da onorare, da portare nel cuore. E ho pensato che questo significa anzitutto essere vescovi: sentirsi sposati, rimanere fedeli, condividere tutto. Ho capito quanta ragione abbia la Prima Lettera a Timoteo quando esige che il vescovo sia anzitutto uno che sappia aver cura della propria famiglia e che così governi la Chiesa di Dio (cf. 3, 4-5).

La scelta di Francesco mi ha colto nella quotidianità del mio essere uomo, del mio essere cristiano, e tale sono qui stasera davanti alla mia Chiesa. Posto accanto ad ognuno di voi in ascolto del Vangelo, che è tutta la nostra ricchezza, tutta la nostra forza. Ricordiamoci delle parole di Pietro al tempio, di fronte al dolore dell’uomo storpio: «Guarda verso di noi […] Non ho né oro né argento, ma tutto quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina» (At 3, 6). Non abbiamo altro da far vedere, da vivere e da dare al mondo se non la potenza di questo annuncio portato da Gesù di Nazareth nel cuore della storia umana: Dio ci ama, ama ogni donna e ogni uomo, prima e indipendentemente da ogni merito e da ogni virtù. Ci ama mentre siamo poveri e peccatori (cf. Rm 5, 8). Per questo la Chiesa è la casa di tutti, la casa che per fedeltà al Vangelo del suo Signore accoglie tutti e non ha nemici, non alza barriere, non accampa diritti o privilegi.

Il primo compito del vescovo è questo: ascoltare il Vangelo insieme alla sua Chiesa, farsi giudicare, farsi condurre e sollevare dalla potenza di questa Bella Notizia che ogni uomo sente nel profondo, al di là di fedi e di appartenenze, perché il Vangelo non ne conosce (il ministero di Papa Francesco ce lo rammenta ogni giorno). Durante la celebrazione non per nulla sopra il mio capo è stato tenuto, come un segno, l’Evangeliario, il libro dei Vangeli. Perché io non dimentichi di rimanervi sotto, di servirlo.

Non ho piani da proporvi, non ho programmazioni pastorali da inculcarvi, ma vi chiedo solo di aiutarmi ad ascoltare la chiamata che mi ha portato qui tra di voi, di continuare ad ascoltarla e di lasciarci insieme guidare dal Vangelo. Papa Giovanni XXIII che ci ha donato il Concilio, rinnovata Pentecoste del nostro tempo, ci ha detto che non è il Vangelo che cambia ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio. Ecco la fonte della Chiesa povera e dei poveri che oggi  Papa Francesco  ci consegna e che ho avuto modo di approfondire in questi anni nel contributo del card. Giacomo Lercaro e di don Giuseppe Dossetti al Vaticano II. Perché la paternità del vescovo, come sappiamo non significa esercizio di potere e di dominio. Quando Gesù dice con forza ai discepoli di non chiamare nessuno «padre» sulla terra (Mt 23, 9), intende, a mio modo di vedere, richiamare in controluce il senso della vera autorità, della paternità che Lui ha esercitato tra di noi avendo cura di tutti e avendo a cuore tutti.

Voglio dunque con voi ascoltare il Vangelo, ricordarvi la sua bellezza e il suo dinamismo (è questa l’unica cattedra che concepisco), e al contempo desidero ardentemente, in tutto il mio ministero, ascoltarvi: con passione, con dedizione quotidiana. L’ascolto autentico del Vangelo e l’ascolto degli altri nella verità sono due azioni intimamente connesse. Voglio ascoltare voi, sorelle e fratelli diletti, voglio ascoltare voi, presbiteri della mia Chiesa, sin d’ora da me molto amati. Voglio immettermi nella vivente e ricca tradizione di questa Chiesa di Palermo, ascoltare la sua santità e la sua fede operante, imparare come essa accoglie e vive la Parola di Dio ospitata nelle pagine della Scrittura e nelle pagine della sua Storia, come si conforma al suo Signore nei segni sacramentali della Chiesa – la Frazione del pane, l’ascolto orante della Parola, i Poveri e i Piccoli – e negli eventi della storia, nei segni dei tempi. Voglio immergermi nel vissuto e nella storia di questa grande città che è Palermo, con ammirazione e rispetto, per ascoltarne il respiro, per essere aperto alla parola di ognuno, sapendo che lo Spirito come il vento «soffia dove vuole» (Gv 3, 8), e che il Regno di Dio è ben più grande della Chiesa. La Chiesa, è solo il Regno «praesens in mysterio» (LG 3), chiamata a riflettere non una luce propria bensì la luce del suo Signore e Maestro.

Dice il profeta Geremia: «Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi circa i sentieri del passato, dove sta la strada buona e prendetela, così troverete pace per le anime vostre» (Ger 6, 16a). Ascoltare vuol dire dunque saper guardare al passato, custodire la memoria. La memoria dei santi e dei martiri, prima di ogni altra. La memoria della Chiesa che è stata di Mamiliano e di Giacomo Cusmano, di Rosalia e di don Pino Puglisi. La memoria di una Chiesa che in tante forme e con grande creatività condivide e solleva la fatica di chi stenta a vivere: penso tra gli altri alle tante iniziative della Caritas diocesana e delle Caritas parrocchiali, alla Missione speranza e carità di Biagio Conte, alle Mense della carità, ai servizi per i migranti: dall’oratorio santa Chiara al Centro Astalli, ai Centri sociali e così via.

 La memoria di una terra che è stata terra del martirio di Piersanti Mattarella e di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Rosario Livatino e di Peppino Impastato, di Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo e di Paolo Borsellino e degli eroi umili delle loro scorte, di uomini e donne che, insieme ai tanti altri, esprimono il sussulto di dignità e il profondo desiderio di giustizia di questa terra violata e violentata, dominata a volte da potenze straniere ma soprattutto sfigurata dalle forme perverse di dominio germinato nella sua stessa carne.  Terra di quanti, anche se non caratterizzati per appartenenza religiosa, da anni sostengono la cultura della legalità e la rivendicazione dei diritti della persona e in particolare il diritto alla case e al lavoro di tanti disperati promuovendo anche l utilizzazione dei beni confiscati alla mafia.

Una terra e una città che tramite i suoi testimoni grida la propria passione per l’avvento del Regno di giustizia e di pace, di libertà e di riscatto, dove non ci saranno più la morte, il lutto, il lamento e il pianto (cf. Ap 21, 4). E penso qui oggi con affetto al fratello di Piersanti Mattarella, a quel Sergio, Presidente della Repubblica italiana, che idealmente rappresenta per noi, con la sua testimonianza di serietà, con il suo rigore e la sua parola, quest’ansia e questa speranza di cambiamento per il popolo palermitano e per la Sicilia tutta.

Desidero che sia chiaro. Coltivare la memoria, custodirla fedelmente, non vuol dire dare riconoscimenti puramente formali, né tantomeno ideologici. Per un vescovo, per il vescovo che io vorrei essere tra di voi, custodire la memoria equivale a rimanere in stretto contatto con le vite, i corpi, le esperienze di amore e di dolore che sono il vero humus di questa terra. Significa sentirle e farle sentire vive, accompagnarle con partecipazione e con affetto. Vuol dire farsi scudo e garante di ciò che è bene e che fruttifica. Vuol dire essere dalla parte dei poveri, a cui voglio stare accanto e che avrò sempre come bussola della mia vita in mezzo a voi: penso alle famiglie economicamente, affettivamente e spiritualmente più disagiate; a chi è tenuto ai margini, a chi non è nemmeno considerato; ai bambini, agli anziani, agli ammalati, agli ospiti degli istituti penitenziari; alle donne violate, a chi fugge dalle guerre e dalla fame; a chi piange, a chi non ha nessuno; a chi soffre e dà la vita per la pace e per la giustizia. E questo comporta per me fare argine concretamente, con forza, insieme con voi e con tutto me stesso, ai «poteri di questo mondo» che vogliono annientare la dignità e la bellezza del nostro essere uomini. Perché questo è la mafia e questo sono tutte le mafie, in ogni forma e in ogni parte del mondo: l’opera di gente che ha perso di vista il volto dell’altro, che è pronta a calpestarlo perché vive nella costante strumentalizzazione di ogni essere. E per questo la vita di costoro è disperata, è infelice. È una vita che ha perso il suo senso e la sua gioia, che va verso il nulla, gettata com’è nell’abisso dell’odio. E mentre ne dichiariamo senza mezzi termini la follia, dobbiamo credere questa stessa vita sollevabile, redimibile, facendoci, come il Signore Gesù, ascoltatori feriti anche del dolore illegittimo del colpevole, inermi (e per questo forti) testimoni di una parola che non ha paura di richiamare l’uomo a se stesso, ma che salva senza inimicizia e senza odio: il nostro don Pino Puglisi è lì a dircelo con la sua testimonianza, con tutta la sua esistenza.

Ascoltare il Vangelo, ascoltare l’altro, aver cura, amare, far crescere; volere il bene di chi ti è affidato, accompagnandolo su ogni strada, condividendo la vita con lui senza risparmio e senza giudizio: questo mi pare in fondo il compito affidato al vescovo. Vivere radicalmente cioè la missione del Figlio dell’uomo, «che è venuto per servire e non per essere servito» (Mc 10, 45). «Exemplum dedi vobis». «Vi ho dato infatti l’esempio» (Gv 15, 13). Gesù lo ha fatto confondendosi con noi, con la nostra storia, sino alla fine. E io interpreto così un momento speciale della celebrazione di stasera. Come avete visto, durante le litanie mi sono prostrato a terra, fino ad aderire totalmente al suolo. Sento in questo gesto la consacrazione e la chiamata alla sequela di Gesù, rimasto sino in fondo fedele alla terra, fattosi povero, fattosi carne e terra per «farci ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8, 9).

È con questi sentimenti che inizio il mio ministero in mezzo a voi. Avviamoci insieme, fiduciosi e pieni di speranza, sui passi che la Parola di Dio ci indica sin da stasera. Gli ostacoli non mancheranno, lo sappiamo, e non ci nascondiamo le asperità sul cammino. Ma confidiamo nel fatto che Dio, come ci ha annunciato il profeta Baruch, «ha deciso di spianare» per noi «ogni alta montagna e le rupi perenni» (Bar 5, 7), di rendere piane «le strade impervie» (cf. Lc 3, 6) e di fare «grandi cose per noi», come abbiamo cantato nel Salmo: grandi cose per questa Chiesa, per questa Città, per questa terra. Perché Egli ha deciso di entrare – come ci ricorda il Vangelo di Luca – nella storia dominata dai grandi, dai re e dagli imperatori che opprimono i popoli (e oggi noi possiamo dare un nome preciso all’oppressore, ovvero a questo sistema economico crudele che affama le genti e distrugge il pianeta, riducendo gli uomini ad una merce di scambio), per contribuire a cambiare il corso delle cose, operando attraverso tutti coloro che ‘cooperano’ per il Vangelo.

«Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù», dice Paolo ai Filippesi. E io mi unisco a lui, con timore e tremore, ma sapendo che il Padre non ci abbandona, che alla fine la nostra perseveranza porterà frutto e «ogni uomo vedrà la salvezza di Dio».  Su questa via andremo fianco a fianco, io per voi, ma soprattutto voi per me, in quella reciprocità amorevole che si addice agli sposi. «Grande è il Signore che vuole la pace dei suoi servi» (Sal 34, 28). Per questo beneditemi dal profondo del cuore e pregate per me.