Omelia
«Ho un lavoro sfavillante da fare con te»
(C. Bobin, Il Cristo dei papaveri, Frammento XLVI
Introduzione
Con particolare trepidazione, mi rivolgo a te, amatissimo popolo santo di Dio, e in modo particolare a voi, Fratelli nell’episcopato, presbiteri e diaconi, Sorelle e Fratelli consacrati, in questo Giovedì Santo che mi dà la gioia per la decima volta di celebrare con l’amata Chiesa palermitana la Messa Crismale, di gioire della comunione in Cristo che continuamente ci viene donata nella fecondità dello Spirito.
Da dieci anni ascoltiamo insieme la Parola di Dio che viene proclamata in questa solenne Eucaristia crismale, fulgida epifania della nostra Chiesa. Ogni anno la Parola illumina e traccia il nostro cammino ecclesiale. È bello oggi essere qui, riuniti in comunione con il Cristo. Con il suo triplice Corpo: il Corpo del Cristo risorto, il Corpo del Cristo eucaristico, il Corpo mistico del Cristo, quel Corpo che siamo noi, la sua Chiesa. Adoriamo e ringraziamo il Padre per i doni concessi a noi dallo Spirito Santo, affinché ci formiamo quale unico Corpo del suo Figlio santificato, arricchito e animato dallo Spirito. Ringraziamolo perché ci ha consacrati per custodire e nutrire il Popolo di Dio con la Parola e con l’Eucaristia.
L’“oggi” di Nazareth
Ecco, la Parola di Dio che ascoltiamo stamattina accompagna la nostra vita di cristiani e di consacrati. La Madre Chiesa nella Liturgia Crismale ci dona questa pagina dell’Evangelista Luca. Vi si racconta il momento, che potremmo definire magico, in cui Gesù, dopo aver già compiuto qualche segno, rivela e celebra la propria identità e la propria missione. Egli annuncia l’Evangelo: il Regno di Dio è vicino. Il kairos atteso dalle genti, profetizzato da Isaia, trova in questo racconto di Luca il punto di arrivo, di deflagrazione e di nuovo inizio.
Gesù torna a Nazareth per rivelarsi, torna nella città in cui era cresciuto. Torna da Maria. Perché ogni inizio è nel grembo di Maria. E Gesù torna da lei per poter dire che ormai lo sa, che il tempo è giunto, che la profezia di Cana si compie e che la sua ora è cominciata. Ed eccolo entrare nella sinagoga: non ha più dodici anni. Ha una maturità tutta sua: la maturità di chi inizia con la certezza della propria identità e della propria missione. Sa dove cercare la Parola che si sta realizzando. E srotola il Libro di Isaia fino ad arrivare al capitolo 61. Sceglie alcuni versetti precisi e poi riavvolge il rotolo. Colpisce la fermezza, la sicurezza con cui si interrompe nella lettura. Sa che deve fermarsi lì: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4, 21).
Un brivido attraversa i corpi dei presenti. Ammutoliti. Così accade anche a noi. Stupore. Silenzio rapito. Si sente la presenza dello Spirito che ha ispirato Isaia e che oggi vivifica le parole di Gesù. Ma a Nazareth, nella sinagoga, qualcosa si incrina. Subito dopo l’estasi, i corpi dei concittadini di Gesù sentono di avere paura. Sarebbe troppo bello e troppo sconvolgente se fosse vero. Da qui il rifiuto, anche violento. Da qualche parte avvertono che è una fine ed è un inizio. Temono che finisca l’elezione e con essa finisca anche la loro storia. Con quale coraggio – si chiedono i concittadini – ha chiuso il rotolo sull’oggi dichiarando finita l’attesa? Allora non c’è più un domani? Solo un oggi che è iniziato e non finirà?
«Dice il Signore Dio: io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente» (Ap 1,8). Il passato dell’Antica Alleanza approda oggi alla pagina di Luca. Da lì si diparte l’oggi eterno: quell’oggi sarà il sempre di Dio. Quell’oggi di Nazareth si dilata e diventa ogni oggi. L’oggi del nostro essere qui, chiamati e riuniti dal Padre a celebrare l’Eucarestia crismale. Noi siamo ancora in quell’oggi. Noi popolo di Dio: amati, perché abbiamo ricevuto la vita e niente esisterebbe se Dio non l’amasse (cfr Sap 11,25); guariti, perché perdonati, perché consolati.
I luoghi in cui ci siamo smarriti e ci smarriamo sono il peccato e la morte. Ma è più giusto dire: ci smarrivamo. Poiché nell’oggi di Cristo sacerdote eterno il passato è stato cancellato. Non vi accorgete che si aprono strade nuove? (cfr Is 43,19). Stamattina siamo ospiti dello stesso oggi di Nazareth, dilatatosi dalla sinagoga al Cenacolo. Non è più la sinagoga, non è più il tempio il luogo della rivelazione. Ciò che è iniziato a Nazareth si compie nel Cenacolo. Lì l’alleanza è nuova. Non c’è più bisogno dell’Arca, perché ora c’è il Corpo e c’è il Sangue del Signore. E noi qui riuniti siamo il suo Corpo vivente. In questo giorno, Giovedì Santo, ci viene donato il segno che dilata fino alla fine dei tempi quell’oggi: l’Eucaristia, insieme all’Ordine, partecipazione di alcuni fratelli al ministero di salvezza, nell’alveo del sacerdozio regale e profetico di tutto il popolo di Dio. Papa Francesco – a cui va il nostro pensiero affettuoso ed orante –, attribuisce all’Eucaristia che celebriamo nelle nostre comunità una forza terapeutica: «L’Eucaristia guarisce perché unisce a Gesù: ci fa assimilare il suo modo di vivere, la sua capacità di spezzarsi e donarsi ai fratelli, di rispondere al male con il bene. Ci dona il coraggio di uscire da noi stessi e di chinarci con amore verso le fragilità altrui. Come fa Dio con noi. Questa è la logica dell’Eucaristia: riceviamo Gesù che ci ama e sana le nostre fragilità per amare gli altri e aiutarli nelle loro fragilità. E questo, durante tutta la vita» (Angelus, 6 giugno 2021).
Ecco il ministero del presbitero: dare il lieto annuncio, dare la vista, dare la liberazione, raggiungere, radunare, disposti a dare la vita. Don Pino Puglisi, il nostro Beato martire, docet! E la pagina di Luca ci indica la strada: «Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui» (Lc 4,20). Fissare lo sguardo su Gesù, guardare a lui. Ma che significa in concreto volgere lo sguardo verso Gesù? La risposta è univoca e ci giunge dai racconti della Passione, dove sta scritto: «Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto» (Gv 19,37).
Lo sguardo verso Gesù
Sorelle e Fratelli, la Madre Chiesa, donandoci questa Parola di Dio, ci chiede quindi – come vi esortavo nel messaggio per la Quaresima – di volgere il nostro sguardo al Signore crocifisso per ascoltare la sua chiamata a dimorare in quest’oggi, per stare e agire con lui in vista della liberazione dell’umanità e della creazione tutta. Ecco cosa ci viene domandato in questo Giovedì Santo: correggere lo sguardo, depurare la propria vista come sapeva già Platone (cfr Repubblica, VII 514a-517a). La conversione altro non è che un ‘correggere lo sguardo’. Guardare a lui che ci dona la Parola, guardare a lui che ci dona la vita sulla croce. Come scriveva Benedetto XVI nel Messaggio per la Quaresima 2007: «Nella Croce si manifesta l’eros di Dio per noi». Guardare a lui che ci insegna a correggere lo sguardo. Oggi è grande la tentazione di guardare al potere, di blandirlo di fronte alle sue manifestazioni più becere e violente. La tentazione di addivenire a compromessi, di scusare o, peggio, di assoggettarsi al potere che sottomette e supera ogni limite con una sfrenatezza inaudita. Di far prevalere individualismo e indifferenza, sospetto e giudizio. Ma nell’oggi di Nazareth ci viene detto il contrario: “apriti, alza lo sguardo e volgiti ai poveri, ai prigionieri, ai ciechi, agli oppressi”. Ecco chi sono i destinatari dei nostri sguardi, delle nostre attenzioni e della nostra cura! Bisogna guardare il ‘Trafitto’ per sapere vedere i ‘trafitti’. Anche quelli che sembrano invisibili. Quanti trafitti abbandonati sulle strade del mondo, quante vite trapassate dal dolore, dal male, dalla morte! Il mondo sembra sull’orlo della dissipazione, della dispersione. L’umanità e il creato sono sottoposti a un dinamismo di disgregazione così potente da lasciarci attoniti. Le nostre città e le nostre comunità cristiane in questi giorni sono state ancora sconvolte dalla violenza omicida che trafigge ed elimina i corpi, dal dolore lancinante di vite spente nel loro pieno germoglio.
Ma di fronte a tutto questo noi fissiamo lo sguardo verso Gesù, verso il ‘Trafitto’, che ci riunisce e ci rende capaci di condivisione, di comunione, di ‘stile sinodale’. Di passione per l’Evangelo, perché raggiunga tutti, adulti e giovani, ragazzi e fanciulli. Le nostre case. Le nostre strade. E mentre l’oggi di Nazareth sembra sconfessato dalla sequela di guerre, di ingiustizie, di mali, di atti di violenza e dal prevalere dell’indifferenza e di logiche disumane; mentre in Sudan come in Congo, in Palestina come in Ucraina, nel Mediterraneo come sui Balcani il Regno annunciato a Nazareth appare un sogno, una chimera, noi sappiamo che fissare il nostro sguardo sui poveri e sugli sconfitti significa fissare lo sguardo su Gesù, diventando donne e uomini di fede, riuniti nella comunione di un unico Corpo.
Abbiamo bisogno di comunione, care Sorelle, cari Fratelli, perché uno solo è il corpo, uno solo è lo spirito, una sola è la speranza alla quale siamo stati chiamati (cfr Ef 4,4). Il Cardinale Giovanni Colombo, nell’omelia della Messa Crismale del 1979, pronunciò queste parole: «Celebrare la messa crismale comporta per il presbiterio e per il popolo di Dio il proposito di verificare la realtà vissuta della nostra comunione: se tutti camminiamo con lo stesso passo, se la giusta libertà dei figli di Dio non venga in noi insidiata da principi di anarchia e di aberranza. […] È giusto – nella luce di questa revisione di vita – ravvivare la gioia della comunione fra noi […]. È giusto anche ringraziarne il Padre celeste» (Voce e storia della Chiesa ambrosiana, 3, 1983, p. 90).
Dieci anni fa
Era quello che provavo a dirvi già dieci anni fa, al nostro primo appuntamento in Cattedrale per la Messa Crismale. A quel testo ora ritorno, come traccia della nostra vita comunitaria, come indicatore del percorso che abbiamo provato a compiere e che oggi ci si pone davanti, rinnovato: «Sì, in questa liturgia del Crisma, l’Olio che con rinnovata fragranza ungerà i nostri cuori e quanti nelle nostre comunità lo riceveranno per essere fortificati, guariti, consolati e consacrati, ci unirà e ci renderà ‘fraternità misericordiosa’. […] La ‘fraternità misericordiosa’ identifica la comunità cristiana quale unica modalità che le consente di dare ragione della speranza che la sostiene e la motiva nella storia verso il compimento del Regno, verso l’avvento dei cieli nuovi e della terra nuova. I discepoli di Gesù sono costituiti come stirpe profetica, sacerdotale e regale. Regnano insieme servendo il Signore come benedizione per tutti gli uomini e le donne nell’ardua via della vita. […] Oggi il Crisma ci consacra come ‘fraternità misericordiosa’ e ci invita ad uscire verso le periferie esistenziali, a prenderci cura dei sofferenti, degli emarginati e dei carcerati; a sostenere e ad accompagnare le famiglie delle nostre comunità, specialmente quelle che hanno conosciuto la fragilità e la sconfitta della relazione; a rinnovare il nostro impegno per la legalità e la giustizia, a smascherare ogni forma di corruzione e a promuovere scelte politiche ed economiche attente alla dignità della persona e in particolare alle fasce sociali più deboli e vulnerabili; a promuovere la ricerca della pace e il rispetto del creato che è la casa comune della famiglia umana; a spenderci per il dialogo ecumenico e interreligioso».
Insomma, mie care Sorelle e Fratelli, miei cari Fratelli nell’episcopato, miei amatissimi presbiteri, diaconi, consacrati, dico a voi oggi: non perdiamo la speranza, non disperiamo. La nostra comunione sacramentale ci sostenga nella speranza. Non lasciamo spegnere «la piccola lampada rossa della fiducia» (C. Bobin, Il Cristo dei papaveri, Frammento LXXV) nella prova ardua della storia odierna. Questo Anno Santo, indetto da Papa Francesco, ci ricorda che siamo Pellegrini di speranza. Vi ripeto quel che vi dissi quel giorno di dieci anni fa: la notte non dura in eterno, l’anelito alla luce è incontenibile ed inestirpabile. Siamo chiamati ad essere «una Chiesa sentinella, nella e della storia, che annuncia, nonostante il buio della notte, l’arrivo del mattino (cfr. Is 21,11). Una Chiesa eucaristica che accoglie la Parola e fa memoria della Pasqua del Signore di domenica in domenica in attesa della sua venuta definitiva. Una Chiesa povera e umile che ha la sua ricchezza nell’evangelo dei poveri, che si fa evangelizzare dai poveri e si sente inviata ai poveri, che condivide l’Evangelo con tutti, specialmente con i più fragili perché sono la carne umiliata del Signore. […] La nostra è la Chiesa che ha conosciuto il martirio di don Pino Puglisi. Come Chiesa palermitana siamo chiamati a tenere alta tale profetica – feriale! – testimonianza discepolare e presbiterale. Non solo non la dimenticheremo ma daremo ancora parola al suo martirio annunziando un Evangelo voce di chi non ha voce. L’evangelizzazione […] non può essere disgiunta dalla ‘forma’ della condivisione, dal prendere parte alla sorte dei diseredati e degli afflitti. Chi segue Gesù, il Crocifisso risorto, percorre la sua stessa via, non conosce l’interesse personale ma assume l’altro nella sua concreta vicenda esistenziale. […] Gli occhi di tutti sono puntati su di noi discepoli di Gesù, come allora erano puntati su di lui. Gli uomini e le donne del nostro territorio diocesano aspettano di sentirci annunciare: “Oggi si è compiuta questa Parola che voi avete ascoltato”. Siamo stati scelti e inviati per annunziare una Parola divenuta fatto, carne, evento! Il Signore continua ancora a consacrarci e ad inviarci!».
Così esortavo tutti noi dieci anni fa e così ritengo di farlo ancora oggi, in un tempo così complesso per la storia del mondo e per la Chiesa. L’abbiamo capito: il cambiamento nasce dallo sguardo, inteso come partecipazione, come cura, come relazione con l’altro. Perché sentirsi guardati, sentirsi visti nel profondo è il segreto della crescita e rappresenta la via di una vita autentica, buona, piena, generativa. Chi è guardato si sente amato e corrisponde all’amore. Chiediamoci alla fine della giornata: chi abbiamo guardato oggi? E correggiamo ogni giorno il nostro sguardo: sul ‘Trafitto’ e sui ‘trafitti’ che incrociamo ogni giorno lungo le nostre strade.
È questo il «lavoro sfavillante» che il Signore Gesù chiede di fare alla nostra amata Chiesa palermitana, sostenuta dalla speranza dell’oggi messianico, lievito fecondo dei cieli nuovi e della terra nuova. Coraggio, esulta nello Spirito, Santa Chiesa che sei in Palermo, la tua, la nostra meta è Gesù, Messia e Signore, il Veniente, nostra unica “ancora”, nostra certa e stabile speranza.