Messa Crismale – Giovedì Santo

Cattedrale, 18 aprile 2019
18-04-2019

«Ora le Potenze dei Cieli con noi invisibilmente danno culto. Ecco infatti entra il Re della gloria»
(Inno all’Offertorio per la Liturgia bizantina dei Doni Presantificati nella Grande Quaresima)

 

Care Sorelle, Cari Fratelli,

sento stamattina qui, accanto a voi, tutta l’intimità e la bellezza di un incontro familiare attorno alla Tavola di Gesù, alla Mensa eucaristica e all’Altare della sua estrema donazione.

Sento la Sua presenza in mezzo a noi che ci sostiene e ci dà forza.

Provo un’immensa gratitudine per tutti voi fedeli laici, figli e figlie, fratelli e sorelle, di questa amata Chiesa di Palermo, per la gioia e la costanza che avete nella testimonianza della fede, ma anche per le attestazioni di affetto che mi avete donato in questi anni;  [provo] un grande affetto per i miei fratelli nel presbiterato e nel diaconato, con i quali condivido più direttamente il peso e la letizia della fatica pastorale; [provo] riconoscenza sincera e ammirazione commossa per la testimonianza dei confratelli ammalati, che continuamente mi trasmettono i segni di una grande fede e di un’alta consapevolezza della dignità umana. Nutro anche una profonda riconoscenza per i miei più stretti collaboratori, per lo spirito di comunione, di donazione e di amicizia che anima il loro servizio alla nostra amata Chiesa. Sento di esternare, inoltre, un pensiero affettuoso per i presbiteri, i diaconi e i collaboratori defunti, che mi hanno mostrato come nella morte si riassuma tutta una vita dedicata al Signore.

«Il Vangelo di oggi, con la parola citata da Isaia “Lo Spirito del Signore è sopra di me” (Lc 4, 18; Is 61, 1), ci sollecita a riconoscere e ad adorare l’unzione santissima per cui tutta la divinità ha invaso l’umanità di Cristo in ogni momento della sua esistenza, in ogni sua parola e in ogni suo gesto. Bisogna davvero che quando noi ci mettiamo in rapporto con il Signore, con Gesù, per leggere il suo Vangelo, per ascoltare una parola sua, per vivere un suo comando, per offrirgli qualche piccola cosa, sempre di più lo facciamo sentendo la verità assoluta di questa affermazione: “Lo Spirito del Signore è sopra di me”.

Quindi bisogna che lo facciamo adorando in lui la pienezza di Spirito Santo e insieme attingendo da questa pienezza la forza di stare al suo cospetto, di conoscerlo, di adorarlo, di amarlo, di seguirlo, di adempiere i suoi comandi. È un unico atto: adorare questa pienezza di Dio che è in lui e attingere da questo la forza per adorare e per adempiere.  Buttarsi ai suoi piedi adorandolo, cercare di toccarlo per attingere lo Spirito che alimenta la fede, la speranza, la carità e il desiderio di conformarsi in tutto a lui. È un unico circuito infinito nel quale noi dobbiamo lasciarci incessantemente attirare» (G. Dossetti, Istruzione a Mattutino, Giovedì Santo, 15 aprile 1976).

Siamo qui oggi, tutti insieme, a gustare la grazia della chiamata ad essere di Cristo, raccolti attorno alla mensa del suo Corpo e della sua Parola, da dove riprenderemo il cammino lungo le strade della vita, certi della sua presenza, resi partecipi della sua divina unzione e della sua meravigliosa missione.

  1. Chiamati e unti

Siamo tutti chiamati. La chiamata viene da Dio che ci incrocia nel nostro cammino umano, concreto, per attrarci a sé. Come ricordava Benedetto XVI, «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Benedetto XVI, Deus caritas est, 1). Senza questo incontro vivo, senza questa attrazione vitale, senza questo principio relazionale non si dà esistenza cristiana. All’inizio di tutto c’è un primato dell’azione di Dio, che ci conquista e ci orienta a sé.

Siamo tutti unti, consacrati. È questo incontro che penetra nelle fibre del nostro essere e ci ‘unge’, ci consacra. Chiamata e unzione sono inscindibili, perché l’amore è una forza che penetra, che ci viene scritta nella carne: ogni gesto e ogni relazione d’amore che abbiamo ricevuto ci hanno unti, ci hanno cioè lentamente e potentemente impregnati fino a diventare la nostra stessa sostanza. Come se nel nostro corpo venisse fissata la certezza profonda di essere amati, la stessa che il Padre al Giordano annunciò al Figlio all’inizio della sua missione: «Ecco l’Amato!» (cfr. Mt 3, 17; Mc 1, 11; Lc 3, 22).

Nelle nostre comunità, oltre che nel nostro cammino personale di discepolato, necessita cercare ancor di più un contatto con Gesù, l’Unto di Spirito Santo, un contatto incessante, sempre più intenso e forte; in ogni nostro gesto, scelta, pensiero, relazione; in ogni nostro respiro, incontro, affanno, conquista, lavoro; in ogni nostra azione liturgica, preghiera o attività pastorale, in casa, nei quartieri, nella città, al lavoro, nel tempo libero, in parrocchia e nel suo territorio, nei gruppi, movimenti, associazioni, confraternite;  nei drammi e nelle gioie di questo nostro mondo, nelle ansie e nelle paure, nei desideri, nelle conquiste e nelle attese di questo complesso e inedito cambiamento epocale.

Cercare questo contatto con la consapevolezza che Gesù, Colui che è stato unto e inviato, è venuto dalla destra del Padre, vi è ritornato e di là verrà definitivamente – dal trono dell’Altissimo – per ricapitolare tutte le cose, l’intera storia umana, in Dio. Egli è l’unico sommo sacerdote che intercede per noi, nei Cieli (cfr. Eb 8,1), al cospetto del «Signore Dio, creatore di tutto, tremendo e potente, giusto e misericordioso (2Mac 1,24). Egli è Colui che, facendoci il dono pasquale dello Spirito, ci invia, rimanendo con noi fino alla consumazione dei secoli, nell’attesa della sua venuta definitiva, quando «egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza» e «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15, 24.28; cfr. Mt 28, 20; Gv 14, 3).

  1. Mandati

Solo da lì nasce il mandato, da lì la percezione di essere inviati. Sempre nella vita, sin dal grembo materno, siamo creature che danno ad altri ciò che a propria volta hanno ricevuto. E se la nostra esistenza è stata toccata dall’amore, ciò traspare e spontaneamente si comunica. Non diversamente accade per l’incontro d’amore con Colui che diventa il centro del nostro vivere e del nostro morire. È questo incontro che non possiamo fare a meno di portare ad altri. È questo incontro che Gesù di Nazareth per primo ha sperimentato come chiamata e come mandato del Padre suo.

La coscienza di una missione personale ricevuta da Dio è caratteristica essenziale del profeta e di ogni inviato, terrestre o celeste; la certezza di stare eseguendo un compito che non deriva da una propria forza o scelta o intuizione ma viene dato dall’alto.

Essa è la sua forza di fronte ai rifiuti e alle contraddizioni, è il suo sostegno nei giorni della desolazione e dell’aridità. «Lo Spirito del Signore è sopra di me mi ha consacrato e mi ha mandato» (Lc 4, 18; Is 61, 1). A questa coscienza del mandato ricevuto il profeta ritorna come a una roccia su cui è costruita tutta la sua esistenza.

Oggi il Crisma ci assicura, ci dà la certezza che il nostro invio e il nostro mandato sono strettamente connessi all’invio e al mandato di Gesù da parte di Dio. Noi oggi sappiamo che la nostra appartenenza alla Chiesa e il nostro ministero, come tutti i doni e i carismi, esprimono una chiara connessione, una evidente continuità tra il Padre che, nello Spirito, manda il Figlio e il Figlio che invia, effondendo lo Spirito, i suoi discepoli.

Siamo collocati e aggregati nel circuito dell’Amore del Padre e del Figlio: attraverso il mandato che ci affida Gesù prendiamo parte al mistero della misericordia risanante e consolante di Dio, all’Amore traboccante tra il Padre e il Figlio che si riversa sulla creazione e sulle creature, sugli uomini e le donne di ogni tempo, su quanti il Cristo nello Spirito conquista a Dio con la sua morte e risurrezione. Unti dal Crisma, animati dallo Spirito-Amore, che mantiene in vita tutte le cose e che trasfigura la faccia della terra (cfr. Sal 103, 30) e il volto degli uomini, i loro incontri e le loro relazioni. L’unzione significa questo: l’immersione in questo Spirito-Amore che penetra le fibre del nostro essere, e ci manda.

L’unzione e il mandato unificano la nostra esistenza. Sono il fondamento a cui sempre ritornare. Ci liberano dall’autocandidatura e dall’autoreferenzialità, dall’abitudine religiosa e dalla vita cristiana a basso prezzo che ci conforma alla logica mondana. Tutto in noi deve dire che la chiamata e il mandato vengono da Dio e non da noi (cfr. 2Cor 4,7). Questo ci unifica interiormente e ci impianta nell’unico popolo di Dio; ci rafforza e ci rende intuitivi e creativi, capaci di individuare e tracciare cammini missionari, di percorrere le strade impervie degli uomini senza temere l’incognito, le difficoltà, le intemperie e le persecuzioni, perseveranti e gioiosi nella prova, desiderosi di rimanere nella volontà di Dio, ricercatori e realizzatori dei suoi comandi.

Inviati da Gesù, come lui è inviato dal Padre, ad invitare i poveri e derelitti, vicini e lontani, chi ha il cuore spezzato, chi è schiavo e non vede, chi è carcerato e dispera, chi pensa di correre e invece vacilla. Inviati ad invitare tutti, anche chi si rifiuta, anche chi è lupo rapace e agisce secondo l’astuzia umana, rimanendo, sulle orme di Gesù, con la mitezza inerme dell’agnello. Inviati dall’ Agnello afono condotto al macello che liberamente e per amore porta su di sé il peccato del mondo (Gv1,29: αἴρων [tollit] τὴν ἁμαρτίαν) non alzando la voce e consegnandosi nelle mani dei suoi persecutori.

Nell’Esortazione Apostolica Postsinodale Christus vivit, Papa Francesco, sollecitando i giovani a testimoniare ovunque il Vangelo con la vita, scrive: «Sant’Alberto Hurtado diceva che “essere apostoli non significa portare un distintivo all’occhiello della giacca; non significa parlare della verità, ma viverla, incarnarsi in essa, trasformarsi in Cristo. Essere apostolo non consiste nel portare una torcia in mano, nel possedere la luce, ma nell’essere la luce […]. Il Vangelo, […] più che una lezione è un esempio. Il messaggio trasformato in vita vissuta”» (Christus vivit, 175).

I giovani ci ricordano che tutti, qualsiasi sia la nostra età anagrafica e il nostro stato di vita, dobbiamo contribuire ad una Chiesa dal volto giovane, entusiasta e audace, come lo sono i giovani, nella testimonianza del Vangelo.

  1. Ad annunciare…

Chiamati, unti e mandati. Ma ad annunziare che cosa?

«Rileggendo la costituzione del concilio Vaticano II sulla liturgia noi troviamo che essa è tutta centrata in una maniera molto diretta, molto esplicita, molto formale e senza dubbio rigorosamente coerente, sul fatto che il contenuto fondamentale dell’annunzio e dell’attualità della vita cristiana è il mistero pasquale; cioè non solo genericamente il mistero di Cristo, ma peculiarmente il mistero della morte, della risurrezione e della glorificazione del Signore Gesù. Questo mistero è non solo annunziato ma è reso attuale nel mistero liturgico. In particolare, la Chiesa riunita in assemblea eucaristica, cioè per la celebrazione del mistero pasquale, è veramente la Chiesa simpliciter, la Chiesa nel suo atto più puro, più completo; è la Chiesa che ricapitola tutti gli altri elementi, tutte le altre finalità, tutte le altre sue funzioni e attività in quell’atto, e da quell’atto trae il suo essere più profondo e anche il modello più tipico e più caratterizzante della sua stessa struttura. Sicché il fondamento, la radice anche di tutta la struttura della Chiesa, e perciò il punto di riferimento a cui occorre risalire per potere, in una maniera univoca ed omogenea, affrontare gli stessi problemi istituzionali e strutturali della Chiesa, è precisamente l’assemblea liturgica.

In essa la Chiesa si realizza nel suo atto più completo e perfetto in terra…» (G. Dossetti, Per una Chiesa eucaristica. Rilettura della portata dottrinale della Costituzione liturgica del Vaticano II, Il Mulino, Bologna 2002, p.69-70).

L’assemblea liturgica è il modello, l’archetipo della realtà più profonda della Chiesa e perciò anche delle linee fondamentali della sua autocomprensione, della struttura, delle sue scelte ad intra e ad extra. Nell’assemblea liturgica si riassume tutto il senso della nostra vita e anche il significato della storia del mondo. Di quella storia che ha il suo senso nella vittoria di Cristo sulla morte e diviene perciò la storia vera «di tutti gli uomini e soprattutto la storia degli umili, dei poveri, dei piccoli, di coloro che non hanno “creatività” o sono impediti dall’esplicarla (e sono certo la maggior parte degli uomini), che sono dei “senza storia” (G. Dossetti, Con Dio e con la storia. Una vicenda di cristiano e di uomo, a cura di A. e G. Alberigo, Marietti, Genova 1986, 31). È questo ciò che ci permette di partecipare, dalla parte della vita e della dignità della persona umana, a quella lotta della vita contro la morte, della giustizia contro il sopruso e le disuguaglianze, del perdono contro la violenza che è il senso stesso della storia di salvezza. È qui che troviamo la forza per «fasciare le piaghe dei cuori spezzati, proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri…per consolare tutti gli afflitti, per allietare gli afflitti di Sion» (Is 61,1-3). Quanta attualità in queste parole, soprattutto per noi che viviamo nella “Tutto-porto” del Mediterraneo!

  1. Ai poveri…

«Oggi si è adempiuta questa Scrittura» (Lc 4,21). Chi sono attualmente i destinatari di questo “compimento”? A chi siamo mandati? Urge una testimonianza unanime e coraggiosa di fronte alla dispersione e alla confusione delle opinioni nel nostro tempo. Siamo unti e mandati a portare:

ai poveri, l’olio del lieto annuncio del Regno: l’olio che trasfigura e profuma il puzzo degli anfratti esistenziali;

ai prigionieri, l’olio della liberazione: l’olio che riscatta la solitudine dei carcerati;

agli oppressi e ai profughi, l’olio della dignità ritrovata: l’olio che risana e consola i malati e i sofferenti nel corpo, nella psiche e nello spirito;

a tutti, l’olio della grazia del Signore: l’olio che rigenera e dà la gioia ad ogni uomo e ad ogni donna.

Per questo ho deciso di consegnare a tutti voi, all’amata Chiesa palermitana, stamattina, durante la Messa Crismale, lo Statuto e Carta pastorale della Caritas. Per dire e dirci con chiarezza che Caritas non vuol dire “un settore dell’attività pastorale dedicato alla cura di coloro che sono nel disagio”. La Caritas è un segno, un fermento evangelico, che ci riguarda tutti: il segno di una Chiesa interpellata dal suo Signore, chiamata ad annunziarlo sulla via di Cristo, «tra povertà e persecuzioni» (LG 8, 3), e che sceglie di farsi ricordare ogni giorno il senso stesso del suo essere, per rimanere – come ci ricorda opportunamente lo Statuto e Carta pastorale della Caritas – « Chiesa “santa”, al passo del suo Signore e Maestro: una Chiesa-ponte, senza barriere, dei poveri e per i poveri; una Chiesa “sentinella” che, nei crocevia della storia, annuncia il regno di Dio, invocandolo insieme ai poveri che raggiungono le nostre terre e ai nostri giovani spesso costretti a lasciarle per trovare lavoro e casa; una Chiesa che si impegna ogni giorno a rinnovarsi per assumere la “forma Christi”, così da offrire a tutti il Vangelo» (Caritas Diocesana – Palermo, Statuto e Carta pastorale della Caritas, Art. 1, p. 8) .

  1. Nel segno della fraternità

Questa Chiesa, chiamata, unta e mandata dal suo Signore ai poveri e agli oppressi per portare l’olio del Regno, è una Chiesa di fratelli: una chiamata, un mandato e un annuncio condiviso. La fraternità non è per noi una categoria sociologica o puramente affettiva. L’unzione e il mandato non sono mai un fatto individuale ed esclusivo. Siamo chiamati unti e mandati insieme. Se condividiamo l’essere generati, unti e inviati dall’unico Spirito-Amore siamo fratelli, e così ci consegniamo al mondo. Le relazioni fraterne ci costituiscono, ci fondano.

Sono la materia della sacramentalità della Chiesa per tutto il genere umano. Il Vangelo arriva sempre attraverso il segno delle relazioni riscattate dalla competizione e dall’individualismo; attraverso le orme della fraternità riscattata dall’invidia e dalla gelosia. Per questo dobbiamo averne cura.

Lo dico oggi anzitutto ai voi fratelli nel ministero presbiterale e diaconale. Rimaniamo uniti per ordinare il segno della comunione fraterna, imbandiamo non solo le mense delle nostre chiese ma soprattutto predisponiamo e animiamo comunità eucaristiche, fraternità discepolari, comunità che ricevono il dono della comunione trintaria.

Sentiamo l’importanza di sostenerci a vicenda nella perseveranza in una vocazione oggi sempre più ardua ed esigente, quale quella del presbitero e del diacono. Per questo cresce tra noi l’esigenza di rafforzare i legami e le occasioni di vita comune, di essere fedeli ai nostri ritiri e ritrovi formativi, perseverando nella condivisione spirituale, nella lettura orante delle Scritture e nel discernimento sinodale, insieme ai fedeli laici, dei segni dei tempi.

La fatica di vivere il dono meraviglioso del celibato, in una società che accondiscende ad ogni tipo di libertà sessuale, suggerisce un maggior impegno della vita fraterna e la coltivazione di una sana amicizia tra noi, per sostenerci a vicenda nella testimonianza della bellezza di una consacrazione totale a Cristo e del dono di sé indiviso alla Chiesa e ai fratelli.

Ma dico la stessa cosa a tutti voi, care Sorelle e cari Fratelli: non lasciamoci prendere dal demone della divisione, dell’autoreferenzialità personale o di gruppo, della contrapposizione, dell’invidia, del risentimento, ma viviamo insieme con gioia la bellezza dell’unzione che abbiamo ricevuto!

Siamo tutti peccatori perdonati, senza meriti e senza pretese, ricreati dalla croce di Gesù e chiamati ad una vita felice, cioè ad una vita amante e donata.

Accogliamo, dunque, dentro di noi il lieto annuncio del Regno e, sostenendoci con pazienza e affetto gli uni gli altri, portiamo nel mondo la speranza che abbiamo ricevuto. La stessa speranza di Colui che nella sinagoga di Nazareth ci ha annunziato il compimento del Regno e lo ha testimoniato fino al dono totale di sé stesso. La stessa speranza di Maria che rimase, intrepida, sotto la croce, certa della vittoria e dell’esaltazione dell’Amore crocifisso. Amen.