Il Sinodo e le donne

I chiaroscuri di Giuseppe Savagnone

Inaspettatamente, il Sinodo dei giovani sta ponendo il problema del ruolo delle donne nella Chiesa. La questione nasce già se si guarda ai numeri: solo sette suore, a fronte di 267 padri sinodali. «Immaginavo che al Sinodo saremmo state poche donne, ma non così poche», ha osservato Suor Maria Luisa Berzosa, spagnola, direttrice di «Fe y alegría».

Ma a determinare un crescente malessere, in questi giorni, è stato l’approssimarsi del voto sul documento finale. Perché queste sette religiose – tutte superiore generali o comunque persone estremamente qualificate – non avranno diritto di votare. Una oggettiva discriminazione, rispetto agli uomini, che ha fatto parlare di loro come di “membri sinodali di serie B” e ha suscitato, all’esterno, un’ondata di proteste da parte delle associazioni che mirano a valorizzare e promuovere il ruolo femminile nella Chiesa. Una petizione che chiede espressamente di cambiare il regolamento del Sinodo, ammettendo queste donne alla votazione finale ha raggiunto già alcune migliaia di firme.

La questione è stata espressamente sollevata nel corso di uno dei briefing quotidiani che permettono ai giornalisti di porre domande ai padri sinodali. La risposta del portavoce di turno, mons. Everardus Johannes de Jong, vescovo di Cariana (Paesi Bassi), si è basata sulla distinzione tra la partecipazione al dibattitto, a cui le donne sono state effettivamente ammesse senza alcuna limitazione, e il momento del voto, che in un Sinodo dei vescovi viene riservato a questi ultimi: «Noi ascoltiamo le donne», ha detto. «Resta il fatto, però, che Gesù abbia scelto degli apostoli che erano maschi: quello in corso è un Sinodo dei vescovi, non ci sono donne-vescovo e donne-cardinale, dobbiamo convivere con questa situazione».

Ma, a mettere in crisi questa spiegazione, è bastata una domanda, rivolta dai giornalisti, durante lo stesso briefing, ai superiori di tre ordini religiosi maschili fra i più in vista, il maestro generale dei Domenicani Bruno Cadoré, il ministro generale dei Francescani conventuali Marco Tasca e il padre generale dei Gesuiti Arturo Sosa Abascal: «Si dice che le donne non votano perché è il Sinodo dei vescovi, però oltre ai vescovi ne fanno parte anche i religiosi: e allora perché i superiori degli ordini maschili hanno diritto di voto e le superiore di quelli femminili no?».

Ne è seguita una pausa di imbarazzato silenzio, finché padre Sosa, il generale dei gesuiti, ha detto: «Se c’è un malessere, è un segno che qualcosa non va bene e può essere un’occasione per individuare un sentiero e andare avanti». Una risposta inevitabilmente vaga, su cui si sono allineati anche gli altri due religiosi, sottolineando il processo, in corso nella Chiesa, di sempre maggiore apertura ai laici e alle donne in particolare, ma senza entrare nel merito dell’incongruenza, del loro mancato diritto di voto nel Sinodo in corso.

E, in effetti, se i superiori religiosi maschi per statuto hanno il diritto di voto, pur non avendo la consacrazione episcopale – anzi, due di loro non sono neppure presbiteri – , appellarsi al fatto che gli apostoli erano uomini e che non ci sono, perciò, donne-vescovo e donne-cardinale, suona come una maldestra copertura di un problema che non risale affatto alle scelte di Gesù, ma a una tradizione di maschilismo ancora imperante, malgrado le aperture degli ultimi papi.

A dare uno scossone, intervenendo senza mezzi termini, è stato, in un altro briefing, l’arcivescovo di Monaco, Reinhard Marx, uno dei cardinali del cosiddetto C9, il Consiglio cardinalizio creato da papa Francesco per essere coadiuvato nel governo della Chiesa. «La Chiesa», ha detto l’alto prelato, «sarebbe sciocca, pazza, se rinunciasse alla partecipazione delle donne alle sue decisioni. Vanno coinvolte altrimenti in tante se ne andranno e avranno ragione a farlo». E ha aggiunto: «La questione delle donne è impellente, non si risolve dall’oggi al domani, certo, ma dobbiamo progredire oggi, non domani. Non capisco, perché si esiti a farlo. È da cinquant’anni che abbiamo questo problema, già Giovanni XXIII diceva che le donne sono sullo stesso livello degli uomini. Questo allora implica una loro maggiore partecipazione alla vita ecclesiale, anche in ruoli di responsabilità decisionale».

Certo, ha una sua ragionevolezza l’osservazione del prefetto della Segreteria vaticana per le comunicazioni, Paolo Ruffini, che alle pressioni in atto per estendere il voto anche alle donne del Sinodo, ha risposto notando che «normalmente un’assemblea non cambia le regolein corso d’opera». Ma c’è da chiedersi come mai non si sia pensato di operare questo semplice cambiamento prima che il Sinodo cominciasse. E, più a monte, perché, su un tema che riguarda sia i giovani che le giovani, non si sia cercato di assicurare una più ampia rappresentanza femminile.

A gettare acqua sul fuoco sono proprio le religiose presenti al Sinodo: «La cosa importante (e simbolica) è la nostra presenza qui, tra vescovi e cardinali. In passato la nostra partecipazione sarebbe stata impensabile. Segno che qualcosa si sta muovendo ma bisogna avere pazienza» dice l’italiana suor Alessandra Smerilli, una economista che insegna all’università salesiana.

Che, però, avanza un’ipotesi ancora più radicale, rilevando che il problema del diritto di voto delle religiose presenti al Sinodo non dovrebbe far perdere di vista che un analogo diritto potrebbe forse spettare anche ai 35 giovani tra i diciotto e i ventinove anni, di entrambi i sessi, che hanno appassionatamente contribuito con i loro interventi alla riflessione sinodale.

Qualcuno potrebbe obiettare che in questo modo il Sinodo non sarebbe più solo dei vescovi, ma diventerebbe, in qualche modo, espressione dell’intera comunità ecclesiale, con una rappresentanza, sia pur limitata, delle sue varie componenti. Ora, è chiaro che una simile ipotesi, anche in vista di un ripensamento della formula sinodale, dovrebbe essere attentamente vagliata, tenendo sempre presente che la Chiesa non può e non deve appiattirsi sulla logica, prettamente politica, della democrazia. Non si tratta, dunque, di mettere discussione il principio gerarchico, ma di coniugarlo, molto di più di quanto non sia avvenuto finora, con quello di una effettiva sinodalità (da syn-odós, “cammino comune”).

Dalla sintesi di questi due princìpi potrebbe nascere uno stile che rispecchi meglio il passaggio da una Chiesa-gerarchia alla Chiesa-popolo-di-Dio di cui parla il Concilio Vaticano II. E qui la promozione delle donne a una condizione di par condicio con gli uomini, all’interno della comunità cristiana, sarebbe una immediata conseguenza. Sdrammatizzando così problema del sacerdozio femminile, che resterà grave finché solo l’ordinazione sacerdotale darà accesso a ruoli decisionali.

Il percorso – lo dimostrano le reazioni di tanti fedeli alle aperture di papa Francesco – non è facile e richiede una maturazione delle coscienze, per evitare sia le rotture da parte dei “conservatori”, sia i possibili abusi e le fughe in avanti da cui alcuni “progressisti” sono tentati. Ma come ha detto il card. Marx, è venuto il momento di fare delle scelte concrete, al di là delle dichiarazioni di principio: «Dobbiamo progredire oggi, non domani».