È un percorso comunitario per far emergere le pratiche di bene e di pace che vedono protagoniste “Le Rosalie invisibili del Mediterraneo" in occasione del 400° anniversario del Festino di Santa Rosalia nella città di Palermo; un itinerario territoriale che vede in santa Rosalia una giovane donna alla ricerca del senso profondo della propria vita, simbolo per le nostre donne di:
liberazione, fragilità, coraggio, Mediterraneo.
Rosalia è la santa patrona di Palermo e simbolo del Mediterraneo, dei suoi abitanti e dei nuovi cittadini migranti, del dialogo interculturale e interreligioso, della pace tra i popoli che accoglie e protegge e alla quale chiediamo di liberarci dalla nuova peste della violenza e delle guerre.
“Siate mare di bene, per far fronte alle povertà di oggi con una sinergia solidale; siate porto accogliente, per abbracciare chi cerca un futuro migliore; siate faro di pace, per fendere, attraverso la cultura dell’incontro, gli abissi tenebrosi della violenza e della guerra (Papa Francesco, “Rencontres Méditerranéennes”, 23 settembre 2023, Palais du Pharo - Marsiglia).
Inizieremo il nostro percorso itinerante attraverso il Vocabolario delle Donne: da giugno a novembre 2024 si articolerà in alcuni quartieri di Palermo un percorso territoriale di incontro tra gruppi di donne, le tante Rosalie di oggi, che si confronteranno su parole chiave attraverso il vocabolario delle donne, parole definite dalla sensibilità e dai vissuti delle donne con un approccio interculturale, intergenerazionale, intersezionale.
Durante questi mesi abbiamo raccolto e stiamo ancora raccogliendo le parole delle donne che via via inseriremo all’interno del sito della diocesi di Palermo e all’interno del sito Sorelle Diocesi di Napoli che coinvolge al momento una rete di sette diocesi, donne e vescovi che si stanno confrontando insieme sul ruolo delle donne all’interno della chiesa e del mondo (Diocesi di Palermo, Catania, Mantova, Verona, Reggio Calabria-Bova, Cassano sullo Ionio e Napoli). Le parole raccolte saranno poi ridiscusse con altri gruppi di donne e con le comunità territoriali, per creare uno spazio di ascolto e di confronto reciproco attraverso la risignificazione delle parole e tracciando linguaggi e visioni di futuro e di speranza possibile.
Ci saranno quattro tappe da condividere insieme all’Arcivescovo della Diocesi di Palermo, mons. Corrado Lorefice e al preside della Facoltà Teologica di Sicilia, don Vito Impellizzeri alla presenza di associazioni e gruppi di donne, comunità territoriali specifiche a seconda del tema:
- Santa Rosalia e le donne della liberazione e del riscatto dalle ingiustizie sociali e dalle ingiustizie di genere per una cittadinanza universale 29 giugno ore 10.00;
- Santa Rosalia e l’impegno contro la violenza sulle donne: Giù le mani da Rosalia, flashmob promosso dal Centro Antiviolenza dell’Associazione Le Onde - ETS, iniziativa a cui aderisce anche la Diocesi di Palermo e che si svolgerà il 13 luglio 2024 alle ore 18.45 a Piazza Politeama;
- Santa Rosalia e le donne del coraggio, incontro con le buone pratiche promosse dalle donne 20 settembre 2024 ore 17.00;
- Santa Rosalia e il Mediterraneo, dialogo interculturale e interreligioso nelle nostre città ibride e mediterranee 10 ottobre 2024 ore 17.30;
- Santa Rosalia e le fragilità delle donne, la cura dell’affettività, la trasformazione dei conflitti in opportunità di crescita e di ben-essere della comunità per costruire percorsi di pace, 22 novembre 2024 ore 17.00.
I luoghi degli incontri saranno itineranti nella città e comunicati attraverso il sito e i canali social della Diocesi di Palermo.
Il percorso è stato presentato alla città domenica 28 aprile 2024 alle ore 12.00 all’interno dell’iniziativa “La Via dei Librai - Artigiani di Pace 2024” sul sagrato della Cattedrale di Palermo. Sarà presente per un saluto l’Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice.
“SANTA ROSALIA E LE DONNE DELLA LIBERAZIONE": SABATO 29 GIUGNO 2024, ORE 10.00
Sarà il quartiere ZEN – San Filippo Neri a ospitare la prima tappa del cammino “Il Vocabolario delle donne - Le Rosalie invisibili del Mediterraneo” promosso da Sorelle Diocesi di Palermo: tra i temi affrontati, il riscatto dalle ingiustizie sociali e dalle ingiustizie di genere per una cittadinanza universale. Un appuntamento che si colloca nel cammino della Chiesa di Palermo verso il 400° Festino in onore di Santa Rosalia.
Sabato 29 giugno 2024 alle ore 10.00 al Giardino di via Primo Carnera (angolo via Fausto Coppi, Laboratorio ZEN Insieme) saranno protagoniste “Santa Rosalia e le donne della liberazione”.
Introduce e modera: Anna Staropoli, sociologa, referente Sorelle Diocesi-Palermo
Intervengono: Karidja Diabate, Julia Isasi Consuegra, Istituto G.B. Montini di Milano – Ass. Levito Onlus, Suore di Carità delle SS. B. Capitanio e V. Generosa, Le donne di Spazio Mamme – Laboratorio ZEN Insieme, Spazio Donna ZEN – Associazione Handala
Concludono: Don Vito Impellizzeri, Preside Facoltà Teologica di Sicilia e Mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo
PER INVIARE STORIE E CONTRIBUTI: anna.staropoli@docenti.fatesi.it
A come Abbraccio, di Karidja Diabate
La parola ABBRACCIO per me ha mille significati: esprime una vicinanza in qualsiasi situazione; un affetto quando ne hai bisogno; una condivisione, cioè, mettersi nei panni dell’altro e la solidarietà in cui vedi l'amore sincero, la famiglia, la sicurezza. Io e mia figlia Anastasia abbiamo trovato nell'Abbraccio l'accoglienza, la sicurezza, il posto sicuro dove la bambina sta crescendo con tutto l'amore che una donna possa immaginare e volere.
A come Allattamento, di Monica Garraffa
L’allattamento è un processo di accudimento già dalla sua specie-specificità. Ogni mammifero, infatti, produce un latte specifico per la propria specie, la cui composizione è funzionale alle necessità del piccolo o della piccola che nascerà. Ogni mamma, infatti, produce un latte su misura, adeguato al proprio cucciolo. In etologia le madri terrestri vengono suddivise in nutrici continue, ovvero madri che portano con sé il piccolo o sono seguite da lui, che sono quindi in costante contatto con il piccolo, e nutrici distanziate, ovvero madri che per protezione nascondono la loro prole o la tengono nel nido. Il latte umano colloca le madri umane nella categoria delle nutrici continue ma col tempo, e sempre più nelle società occidentali, le madri sono diventate nutrici distanziate sotto tutti gli aspetti (per mantenere il loro ruolo personale, lavorativo, sociale, acquisito faticosamente nel tempo e non solo il ruolo di nutrici) eccetto per la composizione del latte. Il fatto che le componenti del latte non siano mutate col mutare del comportamento materno è legato al fatto che la civilizzazione è un fenomeno troppo recente perché abbia potuto incidere in modo apprezzabile sul nostro sistema genetico. Così oggi le raccomandazioni sanitarie esortano a mettere in pratica un contatto precoce pelle-a-pelle tra madre e bambino, insieme all’allattamento da subito, frequente e senza limitazioni, per garantire una produzione di latte costante e adeguata già dai primi giorni e anche nei mesi successivi. Immediatamente dopo la nascita, o quanto prima possibile, il neonato deve essere asciugato bene, messo nudo in contatto pelle-a-pelle con il seno e l’addome della madre e coperto con un telo o un panno asciutto e caldo. Questo contatto deve durare quanto più a lungo possibile, idealmente per almeno un paio d’ore o fino al completamento della prima poppata. Mamma e bambino, insieme al papà se presente, vanno lasciati liberi di interagire spontaneamente, senza interferenze esterne. Permettere a madri e bambini di vivere questo momento di profonda condivisione e conoscenza consente alla donna di esprimere al meglio le proprie abilità istintive e stimolare i riflessi primitivi neonatali. Le regole dell’accudimento e della cura sono le più profondamente radicate nel sistema umano. La particolare forma di attenzione ai bisogni del neonato che si manifesta nella madre nelle prime settimane di vita del bambino, detta preoccupazione materna primaria è stata molto studiata e considerata come una fase fondamentale e di breve durata, destinata a evolvere in comportamenti meno simbiotici. La creazione di una relazione intima nella diade condiziona potentemente in senso positivo lo sviluppo cognitivo, emotivo e fisico del bambino. Per non interferire con questo processo fisiologico bisogna quindi non separare dal momento della nascita le madri e i bambini, permettere che l'allattamento sia a richiesta e non soggetto a orari bensì favorire un immediato approccio al corpo della madre per avviare subito l'allattamento. OMS, UNICEF, Unione Europea, Ministero della Salute italiano e numerose società scientifiche nazionali e internazionali raccomandano che per raggiungere accrescimento, sviluppo e salute ottimali i bambini e le bambine siano allattate esclusivamente per i primi 6 mesi di vita, quindi senza ricevere altre bevande o alimenti al di fuori del latte materno, fatta eccezione, quando necessario, di vitamine e sali minerali e farmaci. La prosecuzione dell’allattamento mantiene la sua importanza anche dopo i 6 mesi e può continuare fino ai 2 anni di vita e oltre, se mamma e bambino lo desiderano. La stessa OMS denuncia però che a livello globale solo 3 bambini su 5 vengono allattati nella prima ora di vita e più della metà dei genitori e delle donne incinte sono esposti al marketing aggressivo della formula. In particolare, UNICEF e OMS hanno studiato approfonditamente questo marketing, dagli spot in tv ai messaggi sui social, dal coinvolgimento degli operatori sanitari all'intrusione nei gruppi on line di discussione tra mamme, nessun canale viene trascurato per aggirare le normative e raggiungere le neo-mamme. Dagli ultimi dati prodotti nel 2023 dall’Istituto Superiore di Sanità la situazione in Italia e in Sicilia mostra un quadro allarmante che vede la nostra isola all’ultimo posto per tasso di allattamento. L’esperienza dell’allattamento (e in modo diverso anche l’esperienza di non allattamento) può essere considerata come un processo di crescita personale. L’allattamento è un processo che si attraversa con la totalità della propria persona, da cui apprendere e lasciarsi trasformare. Come accade in ogni processo creativo, ogni soluzione è sempre una trasformazione di sé. Aumenta la consapevolezza di noi stessi, degli altri, dei propri bisogni, di quelli dei bambini, delle persone vicine alle madri e della interconnessione tra le parti. Uomini e donne oggi soffrono molto della mancanza di un vero rapporto con il loro corpo. Tutta la nostra cultura è orientata a sentire meno dolore possibile. La gente non ha ancora imparato ad amarsi e invece deve imparare a farlo, deve riuscire a mettersi in rapporto con sé stessa attraverso il corpo. Allattamento è anche un processo sociale che comprende il processo ecologico, culturale e politico, strettamente legato ai concetti di potere, fiducia ed empowerment. Trasversalmente riguarda il potere della scienza, il potere economico (risparmio individuale e collettivo vs guadagno delle multinazionali), il potere della conoscenza, della formazione. Ancora riguarda la fiducia. Fiducia nella competenza delle madri e nella competenza dei bambini e delle bambine, fiducia degli operatori nelle loro capacità, nel loro ruolo e nel loro agire professionale, dai quali deriva la fiducia nella relazione di cura sia essa formale o informale. Di fondamentale importanza è la fiducia dei decisori nell'interpretare e nel realizzare le politiche, non solo sanitarie, che condizionano la qualità della vita, il benessere individuale e sociale, la salute delle persone e delle comunità locali, l'equità di accesso a diritti e servizi. La fiducia ė una delle condizioni necessarie affinché sia possibile sviluppare empowerment, cioè autonomia, crescita e responsabilità per acquisire o favorire il proprio benessere e la propria salute. Fiducia intra e interpersonale, tra cittadini e operatori, tra cittadini e decisori politici. L’empowerment è un processo di auto-efficacia, sia individuale che di gruppo che di comunità, che produce cambiamento. L’empowerment non si può dare, si può facilitare o ostacolare, attraverso un uso più o meno consapevole del proprio rango e potere. Per favorire l’empowerment degli altri bisogna prima realizzarlo su sé stessi, comprendendo le origini del nostro potere. Le mamme devono essere sostenute nel costruire il proprio potere personale e la loro autonomia. Ogni sistema umano ha le risorse sufficienti per trovare il proprio modo di far fronte alle difficoltà della vita. E lo possiamo fare promuovendo la parità di genere e un’equa condivisione tra uomini e donne dei carichi di lavoro familiare non retribuito, contribuendo a produrre un cambiamento culturale di fondo della società, creando i presupposti per la fine di ogni tipo di discriminazione, sfruttamento e violenza verso le donne. Madri, dunque, non si è solo del proprio bambino o della propria bambina, quella di madre, infatti, è una condizione dell’anima in cui si manifesta l’accoglienza, un’accoglienza nei confronti dell’universo intero.
A come Anima, di Martina Riina
Nel trambusto sconsiderato dei tempi moderni, accelerati, scellerati, vorticosi, impazienti, impariamo ad aspettare momenti di respiro, ripresa, pensiero, sospensione, ci mettiamo tra parentesi - se solo riuscissimo veramente a farlo - e diamo spazio a chi non ne ha avuto o a chi lo rivendica o a chi non riesce nemmeno a immaginarlo. Un appello a noi stesse, a chi non accetta ciò che viene dall'alto del vortice di questi tempi non indulgenti. Dall'alto arriva il comando di essere prestanti, performanti, evidenti, emergenti, primeggianti, vincenti, impegnati in una corsa senza fine, a spirale, dove una forza schiacciante allontana e opprime. Silenzio, gentilezza, sguardo mite, vicinanza: accogliamo la lentezza, assaporiamo la pochezza, alleniamo la capacità di stare, posarci, restare in attesa. Di questo freno alla corsa, dello stare dentro di noi, del mondo libero da fronzoli, dello spazio silenzioso, del respiro dell'anima. Facciamoci apprendisti del suo mistero.
"Anime salve in terra e in mare" cantava De André, con il sapore sacrale di un cristianesimo non corrotto, narrato e appreso tra genti e contrade e deserto e carovane. Ma spesso né in terra né in mare le anime possono volare serene, le affoga il terrore e il buio di notti senza stelle.
L'anima del mondo, cercavano i filosofi, l’arché dove tutto ebbe inizio, quando ancora tutto era uno. Chi vide nell'aria questo principio chi nell'acqua, materia viva e mobile dove ora le anime spesso naufragano e annegano.
Non ti perdere anima mia, resta leggera, lenta, invisibile, resta tra terra e mare, e ambisci al cielo.
A come Assenza, di Maria La Bianca
Le mie parole
Sono la madre delle mie parole
e la figlia da esse generata.
Terra riarsa e non aiuole
da lacrimata vita fecondata
Piano, fate piano che nascono
silenzio di grida suadenti.
Piano, fate piano che dormono
bisbiglio di nenie assordanti.
Piano, fate piano che crescono
fragore di voci pazienti.
Piano, fate piano che muoiono
litania di eco pressanti.
Nascono
inopportuna presenza.
Dormono
provvidenziale mancanza.
Crescono
ridondante esistenza.
Muoiono
insostenibile assenza.
Sono l’attesa delle mie parole
E la cornice da esse delineata.
Pagina bianca senza sole
da troppe note scure sverginata.
(Maria La Bianca)
La parola è assenza, anzi, assenze. E mi tocca chiamare all'appello tutte le assenze senza una giustificazione che non sia egoismo, indifferenza, opportunismo, convenienza. Nell'assenza ci sono mancanze, vuoti come le assenze nei banchi di una scuola. L'assenza salta agli occhi e recupera la mancanza nel volto, nel nome, nella memoria di un gesto. Me la ricordo un’assenza e mi ricordo il suo nome e il suo volto. Sicily si chiamava. Dovrebbe avere trentatré anni, adesso. Era alta, la più alta della classe, si muoveva con grazia e scriveva racconti. Era nata in un’isola più lontana di quella di cui portava il nome e che l’aveva accolta. In realtà il suo vero nome era più lungo e quasi impronunciabile dai suoi compagni italiani. Anche lei parlava italiano, aveva imparato in fretta, e, cosa ancor più sorprendente per la sua età, scriveva in italiano racconti che parlavano di viaggi in fantastiche terre lontane. Veniva a scuola ogni giorno. Sedeva al suo banco accanto alla compagna, alzava la mano per parlare e sorrideva sempre. Una bellissima e alta bambina studiosa dello Sri Lanka che voleva diventare italiana e andare all’università. Poi un giorno, poco prima della fine della scuola e degli esami di quinta elementare, il suo banco è rimasto vuoto. E anche il giorno seguente. Le assenze nel registro sono diventate una lunga serie di a senza risposta. L’ho cercata, Sicily. Il telefono squillava a vuoto. Sono andata a bussare alla porta della sua casa. Non ha risposto nessuno. Una vicina si è affacciata sulla strada. Sono partiti in fretta una mattina presto, mi ha detto, la mamma con la figlia. Il papà non lo vediamo già da un po’. Non so dove sia andata, Sicilynawathy detta Sicily e non ricordo il suo cognome. Non so dove sia ora. Di molti dei suoi compagni e delle sue compagne ho ancora notizie, di molti ho seguito la crescita e conosco la storia. Lei la immagino diventata donna e tremo al pensiero di quale possa essere oggi la sua vita. Avrà portato con sé i quaderni con i suoi racconti? Avrà continuato a scrivere? Di quella assenza ancora mi tormenta la mancanza di risposte. Si sarebbe potuto fare qualcosa per trovarla? Si poteva prevenire quella fuga? Stava diventando grande, Sicily. Troppo grande e bella per una bambina dello Sri Lanka che scriveva racconti in Italiano e voleva continuare a studiare. L’anno dopo c’era ancora il suo nome nel registro della nuova quinta: il sistema l’aveva bocciata per abbandono. Quel nome accanto a cui continuava a crescere una lunga serie di assenze segnava più di una mancanza, non solo la sua. Ancora oggi certe assenze dovrebbero mancare, come ciò che ritenevamo acquisito e ci viene tolto. L'assenza di un nome, di un'immagine esatta in cui riconoscerci, di un ruolo che ci qualifichi di fronte all'altro, tutte cose che, nel pensarci presenti, diamo per contate. Come a scuola, dovremmo andare a cercare gli e le assenti, vedere tutte le mancanze che le hanno resi tali e colmare quei posti vuoti con la condivisione di tutti quei diritti necessari al reciproco riconoscimento. Non dovremmo darci pace per tutte le assenze che infliggiamo agli altri per accaparrarci uno spazio di vuota visibilità. Perché è nella presenza dell'altro che le assenze ci offrono l'opportunità del nostro pieno. Il mio è rimasto nella memoria di una bambina con i capelli lunghi che legge ad alta voce un racconto ai suoi compagni. La parola è assenza e tutte le altre che non la comprendono.
A come Amata, di Giusy Ferlisi Chesari
L'amata! E se ne va in giro Rallegrata, Deliziata, dopo che L' Amato le ha visitato in segreto, in disparte il cuore... E tutti incanta con Il Suo Stupore, con La Femminilità Grembo dell’Amore e tutti cura, solleva, incanta, guarisce nell' intimo del cuore con la Bellezza che non ha parole, con il suo sguardo Innamorato, Riflesso Limpido e Beato dell'Amato Suo che glielo ha impresso sulle pupille e sul cuore...
B come Batuque, di Irene Fornaia
La mia parola la lascio raccontare alla musica, al suono, ad una parola che risuona.
Batuque cos’è? É una religione africana portata dagli schiavi africani, nella "nuova" terra, terra che ovviamente non era nuova, stava già lì. Queste persone, queste comunità, hanno poi contribuito a de -nominare questa terra Brasile, attraverso la lotta, per l'autodeterminazione e la resistenza, che continua ancora oggi.
Ma il Batuque non è solo una religione, il Batuque esprime un insieme di pratiche culturali, religiose, musicali. Batuque è il rito, il ritmo, la danza, lo strumento.
Uno strumento musicale e uno strumento di lotta. Parlare di lotta nel contesto della costruzione di un dizionario della pace può sembrare una contraddizione, ma parliamo di una lotta necessaria alla pace, una lotta non armata.
Per arrivare alla pace dobbiamo infatti essere capaci di esprimerci nel nostro genere, nella nostra cultura e religione. E purtroppo viviamo in una società che ci silenzia, così come venivano silenziate le comunità di schiavi africani portati in quel " nuovo" mondo. E in una società che ci silenzia come donne, come cittadini, come migranti, il BATUQUE rompe questo silenzio. E può essere attraverso una musica, il battito, il calpestare la terra con i piedi con forza, ma a tempo, che si può arrivare a manifestare la propria libertà e rendersi liberi.
Quindi il batuque, inteso come pratica culturale nel suo insieme, si eleva a molto più di una manifestazione culturale, molto più di una "performance" musicale, ma diventa resistenza, e ad esempio il Pandeiro (tamburo tipico) diventa un mediatore culturale.
Dal batuque vengono anche fuori alcuni dei simboli nazionali del Brasile come il samba e la capoerira.
Il Batuque è stato censurato per secoli, anche successivamente alla abolizione della schiavitù del 1888 in brasile. Il Batuque, il samba, la copeira, e altre manifestazioni caratterizzate dal ritmo, dal battito dei piedi sul terreiro, dal battito delle mani sul Pandeiro, sono per secoli state criminalizzate e represse dalla società egemonica bianca e dalla polizia. Ma è attraverso la musica sono arrivate fino ad oggi, in questa resistenza perpetua, nella trasmissione dei suoni e dei riti, da generazione in generazione. Da bisnonne a nonne, da nonne a mamme, da mamme in figlie. E parlo al femminile sia in riferimento a una esemplare poesia di Conceição Evaristo (*) sia perché in questo processo, le donne hanno un ruolo fondamentale. È stato nei terreiro delle donne baiane che si sono potute mantenere vive queste tradizioni e di conseguenza garantire una lotta per l'identità di tante comunità. Nella casa della Tia Ciata, donna baiana afrodsicendente emigrata a Rio de Janeiro, è nato il samba, che oggi noi consumiamo come un prodotto nel panorama musicale internazionale.
Le figure femminili sono infatti fondamentali in questa lotta incarnando al contempo anche la lotta di donne in una società maschilista, come Dona Ivone Lara che ha composto alcuni tra i primi samba ma che era stata avvertita "pra pisar nesse chão divagarinho" (calpestare il terreno piano piano).
In conclusione, il Batuque è resistenza democratica dove il conflitto è musicalizzato, dove nel conflitto vince il ritmo, vince il Batuque.
Diventa una forma di Attivismo politico che dà voce a una porzione della società che è generalmente marginalizzata nel processo di democratizzazione.
Batuque letteralmente la parola in brasiliano esprime tante cose, è la religione, è il culto, è la danza, è il ritmo, è lo strumento musicale.
Attraverso la musica e il linguaggio musicale si parla di pace, resistenza e identità. Il Batuque rompe, risuonando, il silenzio di una società che opprime e che censura. il Batuque è lo strumento (musicale e non) che ha permesso, nel corso della storia e per secoli, alle voci delle comunità afrobrasiliane di affermare la propria identità, di resistere, di esistere. Diventa attivismo politico in musica e porta avanti un processo di democratizzazione per le comunità marginalizzate. Il Batuque dà anche voce alle donne, che hanno un ruolo fondamentale in questo processo, nel tramandare tradizioni e renderle vive fino ad oggi, permettendo a tantissime altre donne di affermarsi come donne e cittadine con la propria, religione, cultura, storia e identità.
B come Bellezza, di Antonia Castello
Nel romanzo “L’idiota” dello scrittore russo Fedor Dostoevskij il protagonista pronuncia una frase che porta a una riflessione istantanea: “La bellezza salverà il mondo” (cfr. F. Dostoevskij, L’idiota, Firenze 1869). La ricerca del ‘Bello’, nella sua virtù più elevata, è sempre stata un itinerario di avvicinamento al divino, come ha scritto il teologo H. U. von Balthasar: “[…] La nostra parola iniziale si chiama bellezza […]” egli, infatti, ha ripercorso la via della bellezza come forma della rivelazione dell’amore trinitario (cfr. H. U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica, Jaca Book, Milano 1985). A Platone fu chiesto: “Cosa fa Dio?”. E lui rispose: “Applica le regole della geometria all’universo!”. Tutto questo ci riporta a un’idea di bellezza legata all’ordine e all’armonia. Il caos non può essere bellezza, perché non svela la verità. In ambito biblico la bellezza è inserita nell'orizzonte della fede in Dio come fonte e modello di ogni splendore. Lo spazio dato alla bellezza nell’Antico Testamento non riguarda tanto le forme pittoriche o architettoniche (ad eccezione del tempio), quanto la creazione, l'essere umano e in particolare alcune figure in cui la bellezza fisica si coniuga con la bellezza morale. È la bellezza di cui ha scritto Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti affermando: “Nel rilevare che quanto aveva creato era cosa buona, Dio vide anche che era cosa bella. […] La bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza.” (cfr. Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, 4 aprile 1999, 3). La Bibbia testimonia ampiamente lo stupore dell’uomo dinanzi al fascino della Bellezza di Dio, che supera ogni bellezza umana; si parla anzitutto della bellezza degli elementi del creato, che rimanda a quella del Creatore. Bello e buono coincidono, la parola ebraica tôb (tradotta indifferentemente con le parole greche kalòs e agathòs, bello e buono [cfr. Lc 6, 27.35]) designa primitivamente le persone o gli oggetti che provocano sensazioni piacevoli o l'euforia di tutto l'essere: un buon pasto (cfr. Gdc 19, 6-9; 1 Re 21, 7; Rt 3, 7), una bella ragazza (cfr. Est 1, 11), persone benefiche (cfr. Gen 40, 14), tutto ciò che procura la felicità o facilita la vita nell'ordine fisico o psicologico (cfr. Dt 30, 15). La bellezza è anche la tenerezza dei sentimenti, la verità, ma è soprattutto espressione della santità divina (cfr. Sal 25, 8), perché è Dio la bellezza-bontà sperimentabile quasi in modo sensoriale: “Assaporate e gustate quanto è buono (bello) Jhwh” (Sal 27, 13). Tutte le opere della creazione di Dio sono buone (belle): “Dio vide tutto quello che aveva fatto ed ecco era molto buono” (Gen 1, 31). La bellezza del Creatore emerge soprattutto nell’uomo, creato a sua immagine e somiglianza (cfr. Gen 1, 26-27); ne riflette meglio il suo splendore, la sua gloria e la sua grandezza (cfr. Sal 8). Tale bellezza si manifesta soprattutto attraverso i personaggi che hanno avuto un ruolo particolare nel piano salvifico di Dio e sono più vicini al Suo cuore. I personaggi biblici che hanno grandi qualità morali e spirituali sono sempre presentati con la caratteristica della bellezza fisica. Nella Parola che si fa carne risiede la bellezza del Vangelo. Questa Parola non è qualcosa di teorico, ma è la persona concreta di Gesù Cristo, per mezzo del quale viene a noi la pienezza del dono. Icona della trasfigurazione della bellezza terrena è Maria di Nazareth, la giovane e umile donna totalmente protesa all’accoglienza della bellezza divina. Maria non è un mito, non è un’astrazione, ma una donna concreta che è vissuta nella società ebraica. E’ questa concreta femminilità che rivela la bellezza dell’Eterno, è l’incontro tra la bellezza terrena e quella divina. La Vergine Madre figlia del suo Figlio, coperta dall’ombra dello Spirito (cfr. Lc 1, 35), diventa la dimora santa del Verbo di Dio fra gli uomini. Maria è l’icona della Bellezza trinitaria, è “il santuario e il riposo della Santissima Trinità” (cfr. San Luigi Maria Grignion de Monfort, Trattato della vera devozione alla Santa Vergine 1843.), è il grembo della Bellezza divina (cfr. H. U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica, Jaca Book, Milano 1985.). In Maria tota pulchra, la Donna Bella secondo il piano salvifico di Dio, si rende presente in modo eminente l’esistenza umana redenta, protesa alla contemplazione del Bello Assoluto. Oggi più che mai il genere umano dovrebbe rispecchiarsi in Maria che continua a testimoniare e trasmettere il Bello Assoluto; oggi più che mai Maria ci invita ad imitarla raccogliendo ogni lacrima, ogni grido..., ogni disperazione con la quale veniamo in contatto; ci chiama a riviverla per dare amore, per “liberare i cuori dall’odio”, come ha detto Papa Francesco, ed essere dappertutto semi di bellezza e speranza per il mondo intero (cfr. Papa Francesco, La Civiltà Cattolica, Quaderno 4135, p. 3-9, Anno 2022, vol. IV, 1° ottobre 2022). Quale bellezza salverà il mondo? Il card. Carlo Maria Martini, nell’introduzione della lettera pastorale che porta il medesimo titolo, ricorda che l’oggi ci presenta l’urgente necessità di trovare icone e parole per dire la bellezza del Vangelo e per accompagnare, in questo tempo difficile, l’uomo nella sua ricerca di Dio: “E' un tentativo di interpretare la crisi del nostro tempo, dicendo che là dove verità e giustizia non sembrano più reggere, forse l'appello della bellezza può aiutare a ripensare questo insieme di verità, bontà e giustizia che appartiene appunto alla pienezza del mistero trascendente rivelato.” (cfr. Carlo Maria Martini, Quale bellezza salverà il mondo?, 8 settembre 1999).
D come Dissenso, di Alice Laudamo
Il termine "dissenso" emerge come una parola carica di significato e potenza. Sebbene possa essere interpretato come una divergenza di opinioni o un confronto di idee, il concetto di dissenso assume un valore particolare quando visto attraverso la lente delle donne e delle loro lotte storiche e contemporanee.
Il dissenso delle donne non è solo una voce di protesta, ma anche un'azione di resistenza contro le ingiustizie, le discriminazioni e le oppressioni. È il coraggio di alzare la propria voce quando il silenzio sembra più facile, è l'audacia di sfidare le norme sociali obsolete e le strutture di potere patriarcali. Dal dissenso nasce la disobbedienza come arma per costruire strade verso una liberazione consapevole che la vera emancipazione o è di tutte o non lo è.
Le donne hanno sempre sperimentato forme di dissenso; la prima fu proprio Eva. Durante il periodo della monacazione forzata, ritroviamo l’esempio di Anna Valdina (palermitana; dal 11648 al 1699 suora) rinchiusa a 7 anni forzatamente. Ella utilizzò il diritto a suo favore instaurando un processo atto a dimostrare la nullità dei suoi voti e dissentire al vecchio volere del padre, don Andrea Marchese della Rocca. Dai movimenti per i diritti civili alle lotte femministe, il dissenso femminile ha contribuito a plasmare la storia, a promuovere il cambiamento sociale e a diffondere la consapevolezza sulla necessità di una maggiore equità di genere.
Oggi, il dissenso delle donne continua a manifestarsi in molteplici forme: dalle proteste di massa alle piattaforme digitali, dalle opere d'arte alle narrazioni personali. È attraverso il dissenso che le donne affermano la propria dignità, rivendicano i propri diritti e si oppongono alle violenze e alle discriminazioni.
Tuttavia, è importante sottolineare che il dissenso delle donne non è monolitico. Le esperienze delle donne sono plasmate da molteplici identità e appartenenze culturali, etniche, sessuali ed economiche. Pertanto, un approccio intersezionale al concetto di dissenso è essenziale per comprendere appieno la complessità delle lotte delle donne e garantire che tutte le voci siano ascoltate e valorizzate.
In conclusione, il dissenso delle donne rappresenta una fonte di forza e libertà. È un'incrollabile testimonianza della resilienza e della determinazione delle donne nel perseguire un mondo più giusto ed inclusivo per tutte e tutti.
D come Dolore, di Anna Pia Viola, docente universitaria di Filosofia
È difficile parlare del dolore non solo perché le parole non riescono a coglierne l’essenza, ma soprattutto perché è attraverso di esso che forgiamo il nostro dire e impariamo a vivere. Se non ci sono parole adeguate a descriverlo possiamo, tuttavia, cogliere nei verbi “sentire” ed “accogliere” la sua fecondità. Il dolore, infatti, si sente, si prova addosso; il dolore è espressione della vita che scorre e che lotta per affermare la presenza. Dolore è il grido contro un male ricevuto. Pur non essendo e non avendo nulla di ‘male’, il dolore può essere sorgente di rabbia e di ulteriore sofferenza. Per questo motivo il dolore va sentito nel senso di essere ascoltato e accolto. Il dolore dà la misura di ciò che ci appartiene e a cui siamo legati; è segno dell’aderenza alle cose che dobbiamo accettare di lasciare andare. Ogni essere vivente, toccato e ferito in ciò che gli appartiene, reagisce ribellandosi, gridando la propria rabbia. Ma c’è anche un altro modo di vivere ed è quello di accogliere e adattarsi a quel dolore che consente alla vita di andare avanti. È come il taglio sapiente dell’agricoltore su un albero o una pianta: tagliare produce sì dolore, è una ferita che interrompe per un aspetto il fluire della linfa vitale, ma è un taglio che serve allo sviluppo armonioso e duraturo della pianta stessa. Sentire dolore è partecipazione al ritmo della vita che in sé dice ‘lasciare fare e lasciare andare’. Se il dolore proviene dalla perdita di ciò che ci ha nutrito, sostenuto e allietato, sappiamo che dobbiamo farne i conti e accoglierne la presenza senza fermarci. Secondo la sensibilità femminile, perdere non è fallire, sentire dolore è vivere, e accoglierlo consente ancora di generare vita. Non si può impedire di sentire il dolore, ma si può impedire di trasformarlo in violenza. Se il dolore si sente e si soffre nella misura in cui ne siamo consapevoli, la violenza, al contrario, è un atto di forza volto a procurare morte; è, dunque, il male che va arginato, va contenuto, magari assimilato, assorbito, affinché non si propaghi. Accettare il male è l’unico modo per non giustificare il dolore che produce. Accettare non significa fare delle concessioni al male, ma arginarlo per non riempire il nostro cuore di odio. Il male non ha alcun fine, rende però cattivi. Il dolore consapevole è invece un sentire la vita con la gravità e la delicatezza della crescita. Il dolore accettato dona vita, sempre e anche lontano da noi, come il corso d’acqua che inabissandosi sotto terra produce già il bene che porta riemergendo da un’altra parte e lasciando la sua fecondità nel tragitto percorso. La forza e la violenza hanno una visibilità che può essere arginata con il linguaggio opposto della passività e della accoglienza. Dobbiamo lottare contro il dolore, cercare di ridurlo e contenerlo, ma soprattutto dobbiamo trasformarlo in sorgente di vita e non di morte.
D come Donna, di Paola Pecora - Gruppo Laici comboniani
Donna "sentire delicato e profondo ". Donna " portatrice d' amore e protezione "
Donna "simbolo di speranza". Maria Madre di Gesù: esempio di un atto di fede, ma anche un gesto rivoluzionario.
Lei per prima accolse Dio in sé, e lo fece per libera scelta, accettando il destino che era stato stabilito per lei e per Suo Figlio.
Madre Teresa di Calcutta: esempio di carità e totale devozione a Dio e all' intera umanità.
Una piccola donna, una piccola suora, che col suo immenso cuore, con la sua misericordia sconfinata per i più poveri.
La donna nella storia del cristianesimo ha ricoperto diversi ruoli: cura della salute, l'educazione e l'attività missionaria.
Le donne laiche sono state molte attive nella vita delle chiese, supportando le comunità delle parrocchie.
Nei Vangeli Gesù è vicino ai più deboli come bambini, lebbrosi e donne.
Con queste ultime Gesù si comporta in modo liberale: difende una prostituta dal linciaggio, perla di religione con una samaritana (cioè una reietta, secondo le concezioni ebraiche), permette a una malata (l'emorroissa) di toccarlo e la guarisce per la sua fede.
Infine, Gesù risorto si rivela per primo a due donne.
La donna nell’ambito di una comunità ha un sentire spirituale di portatrice d' amore e accoglienza sensibile e spirituale, come una mamma che offre protezione delicata e profonda. “Che Dio ci dia il Coraggio delle Donne”.
D come dialogo - Donne in dialogo in un contesto diasporico. La cultura dell’identità della donna musulmana in Italia. Di Theseen Nisar Hussain
Penso che la questione dell’identità sia abbastanza centrale nel tema della cultura rappresenta e modella le identità. Questo specialmente succede quando iniziamo a parlare e a vivere l’identità in una cultura diversa dalla nostra origine. Questo tema oggi della donna in un contesto relativamente complesso della realtà moderna pone delle sfide che riguardano degli aspetti di religione, inclusione, pluralismo e multiculturalismo. La spiritualità è il contesto ampio di una credenza in qualcosa aldilà del sé e può coinvolgere tradizioni religiose, corrispondenti alla credenza olistica in una connessione individuale con tutti gli altri e con il mondo nel suo insieme.
G come GERARCHIA, di Stefania Macaluso, direttrice dell’ Ufficio Diocesano per la Pastorale della Scuola
Le parole nascono tutte leggere, in quanto ali del pensiero. Da bambini impariamo a pronunciarle con gioia. Ci sono parole che restano leggere, affiorano alcune dal cuore, dal sentimento, altre dall’intelligenza, attraversano la vita, ne scandiscono il ritmo, il palpito; esse stesse sono la vita perché danno forma a ciò che sentiamo, a ciò che siamo. E nutrono la vita, perché ci consentono di entrare in relazione con la realtà intorno a noi. Ci sono tuttavia parole “pesanti” che si sono imposte alla storia e la vita l’hanno condizionata, originando strutture rigide, consolidate nel tempo, tanto da incardinare le relazioni umane. La parola “gerarchia” è una di queste. Attraversarla può significare trovare la chiave per smascherare ingiustizie millenarie riguardo alla relazione interpersonale e a tutto ciò che ad essa è interconnesso. Alcune parole pagano il prezzo della loro polisemia, come nel caso della parola gerarchia che riveste sia il significato concettuale di “ordine di funzione”, sia il senso di “scala di potere”. Mentre la prima accezione rispecchia l’organizzazione della realtà tutta, nel suo presentarsi regolata, secondo leggi funzionali al sistema organico del creato, la seconda accezione è l’esito di un elaborato concettuale, espressione di rapporti storicamente determinati da dinamiche sociali regolate dalla legge del più forte. Le parole ci aiutano, dall’infanzia in poi, a venire-in-esistenza: “Chi sono e che spazio occupo nel mondo” è la sintesi del processo di autodeterminazione di ogni singolo individuo. Dobbiamo fare tuttavia i conti con il contesto nel quale ci troviamo-in-esistenza e ricercare lo spazio nel quale situarci in modalità interconnessa, perché questo esige la vita relazionale. La situazione di connessione interpersonale e le parole che ne esprimono i predicati concettuali, cioè la struttura storico-culturale, costituiscono il contesto che rende possibile, e che in ogni caso condiziona, l’autodeterminazione. Più il contesto è democratico e rispettoso della sovranità del singolo, più è lasciato spazio alla sua autodeterminazione. Bisogna tuttavia fare sempre i conti con l’assetto gerarchico che regolamenta il proprio ambiente di vita, dal momento che anche la più avanzata delle democrazie, alla fine, si basa sull’assoggettamento alla legge che, a differenza dei sistemi autoritari, è funzionale all’ordine e non al potere. Considerato che la forma democratica si è attuata solo di recente e solo in alcune aree geografiche, la struttura relazionale storicamente più diffusa nel tempo e nello spazio, corrisponde a quella gerarchico-autoritaria, per cui l’ordine interpersonale assume una struttura graduata; dunque, il “chi fa cosa” risponde ad un’organizzazione piramidale, imposta d’autorità. Le relazioni, da condizioni di reciprocità, risultano così regolate da criteri di forza: da sempre il più forte si arroga il primato sul più debole; sono nate dunque ingiustizie epocali come la schiavitù, il colonialismo, il razzismo, il classismo, ma l’asimmetria relazionale più antica è quella tra l’uomo e la donna. La forza del maschio si è imposta determinando la struttura patriarcale che ha contrassegnato, nel corso dei secoli, la relazione gerarchica uomo-donna. Fin dalle società più antiche, i contesti militari, civili e religiosi hanno privato la parola gerarchia della valenza di semplice funzione ordinatrice imponendole, piuttosto, l’espressione della modalità del potere e della forza che stabiliscono relazioni asimmetriche. In tutti questi ambiti la pratica di forza gerarchizzante ha coinciso con la forza maschile e l’esito è stato l’imposizione della supremazia del maschio sulla donna. Così è accaduto che l’ingiustizia della prevaricazione abbia finito per congelare l’asimmetria in un perpetuarsi di sopraffazione che ha privato l’umanità della ricchezza della differenza di genere, assicurando il privilegio del dominio al maschio, il quale ha così esercitato l’arbitrio della declinazione al maschile di tutto l’apparato socio-culturale, perpetuando un modello che ha finito per costituire il paradigma della cultura stessa. Nel corso dei secoli, le donne, naturalmente portate alla relazione generativa connotata dalla capacità di collocarsi ad altezza di sguardo, piuttosto che aspirare a imporsi per guardare dall’alto in basso, hanno portato e continuano a portare avanti la fatica di porre rapporti di ordine funzionale alla vita e non al potere, modalità che gli uomini, dopo millenni, ancora devono capire, apprendere e praticare. D’altro canto, le donne devono stare in guardia dal lasciarsi sedurre dal paradigma della gerarchia di dominio, restando fedeli piuttosto alla loro forza generatrice a vantaggio dell’apertura alla vita la quale, senza imporsi, semplicemente diviene, al riparo dalle varie forme di forza per la sopraffazione sull’altro, prime fra tutte la guerra.
La parola gerarchìa (ἱεραρχία), stando all’etimologia greca, significa «governo del sacro» secondo una superiorità. Nella vita della comunità dei battezzati e delle battezzate, il “governo” va inteso in ordine alla ministerialità, ciascuno e ciascuna rivestendo un ruolo di servizio in quanto parte dell’unico corpo il cui capo è l’unico sacerdote e signore Gesù Cristo. La chiesa (ἐκκλησία), originata dal sangue e dall’acqua fuoriusciti dal suo costato, è improntata al modello del Maestro che si è fatto servo per il riscatto di tutti e di tutte. Da qui la natura dinamica della dimensione comunitaria, come di un flusso circolare, secondo una vitalità di servizio che stabilisce un ordine funzionale all’unico scopo della sua stessa costituzione, l’annuncio del messaggio "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo" (Mc1,15) con le sue implicazioni esistenziali. Nulla lascia intravedere, nelle parole e nelle azioni di Gesù, l’introduzione di una struttura relazionale piramidale che autorizzi a riferire alla chiesa la parola gerarchia come rapporto di supremazia-subordinazione[1]. La declinazione della diversità di ruoli è piuttosto di natura ministeriale, cioè fondata sul compito corrispondente al carisma ricevuto da ciascuno e da ciascuna per grazia, nella pari dignità, a vantaggio dell’edificazione dell’intero corpo comunitario. Tale modello relazionale risulta storicamente inedito. La novità implicita nella relazione testimoniata dal Logos trova efficacissima sintesi nell’intuizione folgorante di Paolo: «Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,26-28). La forma comunitaria ecclesiale, dunque, non ha nulla a che vedere con i sistemi verticistici temporali elaborati secondo gradi di potere correlato alla forza normativa.
Nel corso della storia, gerarchia ecclesiale e gerarchia temporale si sono intrecciate, a scapito dell’originalità del modello ministeriale. Il Concilio Vaticano II ha ribadito chiaramente che la differenza di ministeri non dà luogo a gradi: «Sacerdotium autem commune fidelium et sacerdotium ministeriale seu hierarchicum, licet essentia et non gradu tantum differant, ad invicem tamen ordinantur; unum enim et alterum suo peculiari modo de uno Christi sacerdotio participant»[2].
Dobbiamo constatare che la traduzione del documento in lingua italiana, come pure in altre lingue, introduce la congiunzione correlativa “non solo” riferendola a “grado”, cosa che non corrisponde al testo latino[3]: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo»[4]. Un tale fraintendimento di significato altera il processo di comprensione della specificità della relazione circolare e generativa di matrice gesuana, rispetto al modello gerarchico. A chiarimento di tale specificità è utile citare il contributo del teologo Severino Dianich: «Questa differenza, secondo il Vaticano II, è «essentia et non gradu» (LG, 10) infatti non è interpretabile secondo lo schema del più e del meno quasi che i ministri della chiesa fossero nella fede e nell’imitazione di Cristo infallibilmente a lui più intimamente congiunti»[5].
È tempo di focalizzare correttamente il valore di una sinodalità che veda la differenza tra generi, classi, ministeri, non secondo la ponderazione umana, ma nella luce di una sinergia che porti con sé il guadagno di cieli nuovi e terre nuove, piuttosto che la reiterazione di modelli mondani che hanno segnato il passo del discrimine e dell’ingiustizia.
[1] Scrive a tal proposito la teologa Cettina Militello: «Secondo la testimonianza del NT, Gesù di Nazaret agisce assecondando la dynamis dello Spirito che ne sorregge l’evento; agisce esprimendo fattivamente l’exousia che lo connota. Ed elargisce ai suoi lo Spirito partecipando loro la sua medesima autorità. Non si tratta però di autorevolezza sacrale, né tanto meno di un «potere» che abbia tratti diversi da quelli del servizio. Anzi, è esplicita la presa di distanza da tutto ciò che connota il dominio nelle sue forme «imperialistiche».», cit. tratta da:
- MILITELLO, Ripensare il ministero. Necessità e sfida per la Chiesa, Nerbini, Firenze, 2019, p.86.
[2] Cfr. Lumen Gentium ,10 https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_lt.html)
[3] Mi avvalgo qui della consulenza della latinista prof.ssa Alia Tarantello D’Anna, la quale suggerisce la seguente traduzione: “Sebbene differiscano soltanto per essenza e non per grado”, considerato che regola grammaticale vuole che l’avverbio modifichi un verbo, non un sostantivo, dunque tantum non può essere riferito a gradu ma va riferito a differant; l’uso di et non avvalora il voler escludere che la differenza sia per grado. Non si comprende poi perché il sostantivo essentia venga tradotto come avverbio (“essenzialmente”), a scapito della forza di correlazione avversativa tra i sostantivi essentia e gradu.
[4] Cfr: Lumen gentium, 10 in: https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html.
[5] G. Barbaglio e S. Dianich (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia, Edizioni Paoline, Firenze, 1979, p. 922.
G come Generatività, di Valentina Chinnici
Se una donna vuole dare un contributo autentico alla società e alla politica deve farlo con una cifra propria, che esalti il valore della sua differenza rispetto ai modelli imperanti, spesso impregnati di retaggi patriarcali, e soprattutto ammorbati di narcisismo e autoreferenzialità.
L’agire femminile può e deve scegliere, se vuole incidere davvero, il paradigma della generatività, che, ovviamente può essere incarnato anche dagli uomini, tanto è vero che “La politica generativa” è il titolo di un agile volume di Guglielmo Minervini, che fu assessore alle politiche giovanili della Regione Puglia dal 2005 al 2015, quando la Regione era governata da Nichi Vendola. Grazie a questo testo, che può ancora essere di grande ispirazione per chiunque abbia a cuore la cosa pubblica, possiamo tracciare a grandi linee il modello della generatività politica: “la politica generativa è una risposta al crollo di reputazione della vecchia politica”, scrive infatti l’autore, “matura le sue decisioni dal dialogo con la comunità” compiendo così “una rivoluzione radicale: cede potere, anzi, meglio, lo restituisce ai cittadini, per guadagnare potenzialità. Mette in condivisione la decisione ma in cambio riceve legittimazione. Ottiene riconoscimento sociale. Recupera reputazione e, dunque, capacità di incidere. Guadagna possibilità di cambiamento… è una politica più debole nel comando ma più forte nella comunità. Il contrario del modello che domina la scena pubblica: una politica arrogante nel palazzo ma screditata nella società”.
Come si comprende dalle parole di Minervini, che questa politica ha realmente praticato, si tratta di un agire che accorcia le distanze tra fuori e dentro i palazzi istituzionali, “che abbassa il ponte levatoio”, puntando sulla fiducia nella comunità, sul rispetto delle decisioni prese insieme, sulla forza delle energie sociali che vengono sprigionate, sulla redistribuzione del potere e del protagonismo delle persone. Perché, come diceva Calamandrei, lo scopo della democrazia è dare a ciascuno “il suo posto di sole e di dignità”, compito che per il grande giurista era affidato soprattutto alla scuola, ma che spetta a chiunque rivesta ruoli pubblici nelle istituzioni e li incarni nel rispetto assoluto della Costituzione. E’ il momento in cui anche in Italia si sta sfondando il tetto di cristallo che impediva alle donne l’accesso alle più alte cariche politiche: ed è quindi il momento propizio per mostrare che non occorre “portare i pantaloni” o mostrare sedicenti “attributi”, bensì saper essere “combattenti con grazia”, come ha affermato la prima sindaca della storia di Firenze appena eletta, lottando e lavorando per i propri sogni che abbiano al centro una visione di comunità solidale, giusta, inclusiva, che rifugga la logica dello scarto e valorizzi qualsiasi contributo, anche il più piccolo, soprattutto di chi non può o non vuole gridare per far ascoltare la propria voce. Questa politica può generare cambiamento, innescare processi di rinnovamento profondi, rinsaldare la coesione sociale e restituire speranza e sogno anche a chi ha perso fiducia e senso della propria vita, come i tantissimi giovani che, sentendosi ormai irrilevanti e privi di futuro, cercano risposte devianti, e spesso violente, a bisogni giusti e desideri sani.
G come grembo, di Caterina Spinelli
Grembo il più bel contenitore dell’umanità…
La Terra è Grembo dove anche il più piccolo seme porterà i suoi profumati fiori e succosi frutti
I boccioli sono il grembo dei semi e anche i loro frutti sono grembo del seme...
Tutte le maternità umane e spirituali sono Grembo da cui nasce una nuova vita da Custodire Amare e Curare
Mi piace pensare che da un contenitore piccolo e vuoto se si lascia spazio all'Amore nascerà un nuovo Amore.
Lasciamo che l'Amore crei in noi Grembi dove ogni uomo e donna posso trovare una mamma che ci porti a Lui, L'Amato.
I come Impeccabile, di Francesca Di Liberto
Ci si aspetta sempre che noi donne siamo impeccabili, perfette in tutto.
Sante con gli uomini, sante come potrebbero essere le sante che vediamo in Chiesa, irraggiungibili, candide e distaccate, pudiche e pure.
Incapaci di poter pensare, di fare il primo passo con un uomo, perché se lo fa, è chiaramente una poco di buono, qualcuno che è giudicabile come "facile" o "provocatoria", qualcuno che possiamo prendere in giro e bollare, con la lettera "P" di puttana, come in una versione rivisitata della Lettera scarlatta ma declinata nell'epoca dei social e della modernità che non perdona nulla e in cui una donna deve misurare i respiri se vuole sperare di non essere giudicata colpevole quando ha il coraggio di trascinare in tribunale i propri aguzzini.
Impeccabile per poter essere riconosciuta come vittima e non come una che se l'è cercata perché, se si mostra come una sopravvissuta allora il proprio dolore non è abbastanza reale, qualcosa non quadra nella storia diranno.
Impeccabile anche quando le altre donne non rispettano quel vincolo sacro che tutte chiamano "sorellanza" e le fanno la guerra sul posto di lavoro perché hanno imparato che Femminismo vuol dire essere lupi come gli uomini e non solidarietà tra sorelle.
Impeccabile, perché una donna è sempre gentile e candida e se non lo è, è solo un'incubatrice di bambini o, peggio, una tacca sulla cintura che presto, con le giuste mosse, crollerà.
Perché o sei impeccabile, e dunque un modello irreprensibile, una Barbie perfetta o non sei affatto credibile come donna.
I come Intersezionalità, di Rachele Scardamaglia
L’intersezionalità si riferisce a forme particolari di oppressioni in cui due o più fattori discriminatori si intersecano, ad esempio, genere e etnia, orientamento sessuale e religione. Il termine è stato coniato per la prima volta da Kimberlé Crenshaw per esaminare l’esperienza di genere, qualitativamente diversa, vissuta dalle donne afroamericane. La giurista mirava a evidenziare le sfide nell’accesso alla giustizia (sociale e non solo) per le donne Nere, descrivendo la loro discriminazione da una posizione, risultante dall’intersezione di più categorie identitarie, come il genere e il colore della pelle. L’intersezionalità emerge dalla necessità di richiamare l’attenzione della nascente Critical Race Theory e di alcune femministe bianche sull’epistemologia delle femministe Nere, concentrandosi «sulla visibile invisibilità delle donne che non erano bianche e sulle persone Nere che non erano uomini»1. Per Crenshaw, l’intersezionalità evidenzia come le categorie si co-costruiscano, come si relazionino continuamente con le strutture sociali e come l’interazione con queste strutture crei discriminazioni che non sono comprensibili analizzando singolarmente le categorie stesse. Possiamo concepire la discriminazione intersezionale come a un’esperienza in cui l’individuo si trova al centro di un incrocio stradale caotico. Se imaginassimo un incidente in cui veicoli provenienti da ogni direzione urtassero simultaneamente chi si trova al centro di questo incrocio, sarebbe difficile distinguere il veicolo responsabile del danno inflitto. Il nesso di causalità tra gli impatti diventa ambiguo mentre è evidente che tutti concorrono all’effetto finale, ossia il danno inflitto. L’intersezionalità, come teoria critica, è oggi adoperata per esplorare le esperienze e le violazioni dei diritti di altre «minoranze nelle minoranze», conservando la sua potenzialità di framework adatto a cogliere la virtualità, come intesa da Deleuze e Guattari, delle categorie sociali emergenti. Un esempio di questo approccio è presentato in uno studio condotto da Alessandra Sciurba, dove il concetto di vulnerabilità viene decostruito e riformulato a partire dall’utilizzo di un approccio intersezionale come strumento per leggere la discriminazione vissuta dai minori migranti che arrivano soli in Italia. L’intersezionalità è dunque un quadro interpretativo, uno strumento e un metodo analitico, un paradigma utilizzato per comprendere l’esperienza degli individui all’intersezione di numerose e simultanee oppressioni.
1 Kimberlé Crenshaw, Post Scriptum in Helma Lutz, Maria Teresa Herera Vivar, & Linda Supik, Framing Intersectionality. Debate on a Multi-Faceted Concept in Gender Studies, Farnham, Surrey: Ashgate, 2011.
L come Lavoro, di Bijou Nzirirane
Il lavoro si può chiamare anche donna in quanto, o che si occupano del lavoro di cura all’ interno della famiglia o che svolgano un lavoro retribuito, tutte le donne lavorano.
Però il lavoro di cura gratuito e quotidiano all’ interno della famiglia, che consiste nell'occuparsi dei figli o degli anziani spesso non autosufficienti, non viene riconosciuto nonostante gravi quasi esclusivamente sulle donne, in virtù della persistenza di stereotipi di genere secondo i quali rientra “naturalmente” nel ruolo delle donne.
Non soltanto questo tipo di lavoro non viene riconosciuto, malgrado rappresenti una sorta di welfare universale che sopperisce al welfare pubblico non più garantito in misura sufficiente dallo stato, ma rappresenta uno delle cause del mancato inserimento delle donne nel mercato del lavoro o fuoriuscita nel caso in cui la donna abbia già un lavoro.
Infatti, secondo diverse analisi, il nostro paese continua a non essere “un paese per mamme” e maternità e carriera, in Italia, costituiscono, ancora per molte, un bivio non bypassabile determinando condizioni di segregazione orizzontale e verticale in cui le donne vengono intrappolate... Questo si evince dall’ assenza di servizi pubblici e gratuiti per tutti (asili nido, tempo pieno scolastico, cura degli anziani soprattutto non autosufficienti) unitamente ad una squilibrata divisione di compiti all’interno della famiglia tra uomini e donne, fanno sì che le donne, soprattutto le più povere, paghino in prima persona il benessere dell'intera collettività. La situazione è ancora molto difficile per le donne migranti che si trovano senza l’aiuto della famiglia allargata
Anche per quanto riguarda il lavoro retribuito le cose non vanno meglio. Il lavoro retribuito delle donne è scarso dal punto di vista quantitativo, precario, sottopagato e confinato a professioni poco remunerative anche in presenza di alti titoli di studio posseduti. In Italia, in particolare al Sud, abbiamo un tasso di disoccupazione maggiore che in Europa con picchi che vanno dal 30,30% nella provincia di Trapani al 44,30% della provincia di Caltanissetta. Anche quando il lavoro c’è spesso è precario e meno retribuito rispetto a quello degli uomini, sia per la presenza massiccia di part-time involontari sia per l’utilizzo diffuso e continuativo di contratti a tempo determinato o flessibili o atipici determinando il tanto discusso gender pay gap.
Oggi tutti i dati statistici sia mondiali che nazionali rilevano il gender gap salariale, l’ultima analisi dell’INPS “analisi dei divari di genere nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziali dai dati Inps” mostrano un gap non solo salariale ma anche previdenziale, questo dato nella vita delle donne, si traduce in pensioni più basse e con insufficienti condizioni di vita dignitose.
Questa situazione può solo ricordaci che non dobbiamo più rimandare la questione dell’uguaglianza dei diritti.
Concludendo, parlare di lavoro, soprattutto quello delle donne, significa parlare di un importante ed imprescindibile strumento di emancipazione economica, civile e personale ma perché lo sia pienamente è necessario che sia retribuito adeguatamente, che sia tutelato in termini di diritti e di sicurezza e che sia riconosciuto socialmente.
Ricordiamoci la nostra bella Costituzione italiana:
Art 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Art 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
M come Madriterraneo, di Carola Messina
MADRITERRANEO è NEO-TERRA-MADRE, un neo che è il nuovo e al tempo stesso un punto nero.
Pensando al Mediterraneo, al tempo simile e in altro diverso da sé stesso, nasce MADRITERRANEO che ha molti nomi e diverse sfaccettature, come tante sono le madri: un mare/madre che è culla ma anche culla di tanti popoli e civiltà/figli diversi e uguali. Esso dondola, addormenta e cura, come solo una madre sa fare, addolcisce con filastrocche e ninnenanne, le stesse che, in un momento di ira e di impeto, si trasformano in tuoni di parole, urla tremanti ed onde emotive impazzite senza confini, che si alzano talmente enormi da uccidere, letteralmente che affogano.
Nella sua versione peggiore, MADRETERRANEA ingoia i suoi figli, come tanti miti incentrati proprio su questo mare tra Scilla e Cariddi ci hanno insegnato. Mediterraneo è MADRITERRANEO, matrigna che incattivita lascia madri senza terra, senza matria o patria, figli orfani, mogli vedove, madri vuote e straziate dalla loro stessa ira, dolore e urlo disperato.
Una MADRETERRANEA sufficientemente buona e al tempo stesso sufficientemente cattiva che può unire e accogliere diversi popoli/figli, anche quelli non partoriti direttamente da lei; che è anche in grado di dividere, disgregare, abbandonare nelle acque tempestose e burrascose della vita, seppellendo negli abissi più profondi corpi senza traccia o restituzione alcuna.
MADRITERRANEO è quel luogo dove tante madri hanno partorito su un letto d’acqua, che in condizioni favorevoli di calma piatta ha donato lacrime di gioia dal sapore salato-dolce gradevole al palato e profumato; altre volte lacrime di sale, taglienti come il vetro, amare come il fiele, da strappare il fiato e le vite appena messe al mondo. Cosicché, i colori dell’azzurro sfavillante, del verde smeraldo e del turchese si trasformano in tenebra, grigio, nero-petrolio.
MADRITERRANEO non è una semplice appartenenza, è oltre l’identità, è la madre che rappresenta un porto sicuro, un approdo, un ancoraggio, un faro e una bussola, al tempo stesso, indicando i percorsi e le traiettorie, gli stop e i divieti; è la via verso casa che profuma di mandorlo, zagara e gelsomino, di vini inebrianti, di oli essenziali, distese di ulivi e di agrumi che segnano i confini, dove inizia e finisce la nostra madre terra. MADRETERRANEA sa di salvia, menta, alloro, rosmarino; è tavola imbandita, cibo generoso da offrire a tutti, miseria e ricchezza, al tempo stesso, e dentro queste contraddizioni accoglie, contamina e assorbe culture, si nutre di esse e, in egual modo, offre nutrimento.
MADRITERRANEO è quell’essere solare che sembra splendere di luce eterna, anche quando lo sguardo è malinconico e triste, rassegnato ad un destino anche doloroso che il corso della storia non ha saputo cambiare; solitario e silenzioso o quasi sempre in attesa della fortuna che arrivi come i venti di scirocco, tramontana o maestrale a stravolgere un destino, per alcuni scomodo e per altri invece, motivo di “vanto” intriso di male.
La MADRITERRANEITÀ non è eredità ma conquista, è cultura tutta al femminile, uno dei beni più preziosi che va protetto e preservato, non perdendo mai di vista che per terra e per mare sono state sempre le donne, le MADRITERRANEE, a condurre le vere battaglie della vita, anche quelle combattute in una terra per alcuni senza Dio e senza uomini.
M come Maternare, di Julia Isasi
Maternare (dallo spagnolo maternar), è un neologismo spagnolo, un nuovo verbo che comprende il significato dell’essere madre. Maternare non solo racchiude il fatto di essere madre, ma di esserlo in modo consapevole, partendo dalla propria scelta e optare per farlo muovendo dalla cura e dall’amore, in un modo sano, stabilendo vincoli e relazioni sicure con le proprie figlie e/o figli, accompagnandolə e rispettandlə per contribuire alla loro crescita, ma anche proponendo limiti chiari. Maternare è un verbo che si riferisce e include le madri biologiche, ma anche quelle che non lo sono.
Il verbo maternare non vuole idealizzare la maternità né tanto meno sottovalutare o escludere chi per motivi sociali, culturali, biologici o circostanziali, non ha potuto decidere di esserlo, o ha scelto volutamente di non esserlo.
La maternità, l’essere madre, e per tanto il fatto di maternare, è uno dei compiti più difficili e allo stesso tempo più sottovalutati e messi a giudizio nella vita delle donne. Ci sono tanti modi di maternare quante sono le madri, nessuna madre è perfetta, né deve esserlo.
La consapevolezza insita nel maternare, alla quale si giunge se si posseggono specifici strumenti (educativi, culturali e sociali) è in tal senso un privilegio e diviene quindi un'opportunità, che si associa a un forte senso di responsabilità.
Maternare ti mette ogni giorno davanti alle tue insicurezze, ti obbliga a ripensarti e rivederti in un nuovo ruolo: non più solo quello di figlia, caratterizzato in gran misura dall’atto di ricevere (cura, attenzioni, accudimento, valori) ma anche quello di madre, chiamata quindi a dare a sua volta quegli elementi fondamentali per la crescita, che fino a quel momento rischiavano di essere stati dati per scontati. Un compito diverso, e profondamente determinante per la vita di un’altra persona, per tanto di tutta una generazione e di una società proiettata verso il futuro.
Allo stesso tempo, maternare condiziona tutto il resto delle circostanze proprie della vita della madre, obbligandola costantemente a scegliere e quindi a rinunciare, mettendo spesso da parte i propri desideri. Nel momento in cui la maternità ha inizio, i propri bisogni, anche quelli più primari, come il sonno, vengono sorpassati dai bisogni di una terza persona, e questo può avvenire solo se spinto dall’amore più profondo e viscerale, e porta con sé grandi cambiamenti e soddisfazioni, ma anche instabilità e dolore nella vita di una donna.
Maternare consapevolmente è un fatto profondamente gratificante in alcuni momenti, e in altri molto frustrante, per questo è importante che non sia un compito esclusivo della madre. Le responsabilità sullə propriə figliə non possono ricadere tutte sulla persona che ricopre il ruolo di madre. Spesso le madri hanno un sovraccarico mentale perché obbligate a prendere troppe decisioni, ad assumere infinite responsabilità e compiti relazionati con il maternare, ma come dice il proverbio africano: “per crescere unə bambinə ci vuole un intero villaggio”.
P come Potere, di Maria Naidotti
Parola a due facce, cambia di segno e di significato a seconda della preposizione che la segue.
Se si accompagna alla preposizione di è sinonimo di facoltà, forza, capacità, possibilità, attitudine, virtù, dono, talento di fare o decidere qualcosa. Abbiamo il potere di ridere, cantare, parlare, scrivere, far crescere le piante, guardare, ascoltare, dire la nostra, andarcene, disobbedire: la lista è infinita. Peccato che non sempre siamo libere/liberi di esercitarlo, perché ci viene impedito dall’esterno oppure perché la libertà ci fa paura.
Se si accompagna alla preposizione su è sinonimo di dominio, potenza, comando, influenza, supremazia, egemonia, potestà su qualcuno o qualcosa. È una declinazione predatoria, gerarchica, individualistica, escludente del concetto di potere. Esercitarlo prevede una visione in bianco e nero, sotto e sopra, mio e tuo, noi e loro, del mondo. È un potere che non sa sciogliere il conflitto se non attraverso la guerra, l’eliminazione o la subordinazione dell’altro.
R come Rassegnazione, di Assunta Lupo
“Che accetta o ha già accettato, senza reagire, ribellarsi o protestare, imposizioni, gravi rinunce e perdite, dolori o danni e mali”.
Questo il significato della parola rassegnazione secondo alcuni dizionari, un termine che è stato ed è ancora adoperato da molte donne purtroppo ancora vittime di un falso concetto di sottomissione ad una vita segnata da fatti sfavorevoli: “Sia fatta la volontà di Dio…, accettiamola”.
Quante volte lo abbiamo sentito dire e quante volte ci ha fatto rabbia l’idea di dipendenza fatalistica e l’attribuzione a Dio, Padre misericordioso, dell’origine dei nostri mali.
Bisogna però distinguere: ad un lutto quale la perdita dei figli o dei genitori in giovane età, alla disabilità dei familiari, alla convivenza con malattie invalidanti è quasi impossibile rassegnarsi. Sono esperienze che in tante abbiamo provato e che, però, pur cambiandoci la vita, possono aiutarci ad avviare percorsi di pazienza, di tolleranza e di resilienza, accettando il dolore e provando a reagire alle difficoltà.
Quante esempi di donne che non si sono chiuse in sé stesse, ma che hanno fatto del dolore, delle sofferenze, elementi di rinascita ad una nuova vita. Non si sono rassegnate le tante donne familiari di vittime della mafia, le ragazze iraniane che lottano per i loro diritti, le madri di Plaza de Mayo e tutte coloro che hanno guardato avanti, consapevoli dell’unicità e del valore della loro essenza. E non si è rassegnata all’imposizione delle regole del tempo quella Rosalia che nel lontano Medioevo abbandonò gli agi della sua casa alla ricerca di una vita autentica a contatto dell’essenzialità della natura. A quattrocento anni dal ritrovamento dei suoi resti il suo gesto coraggioso ricorda a tutte le donne che non bisogna rassegnarsi all’ignoranza, alla violenza, alla prevaricazione, ai preconcetti di genere, alle imposizioni che relegano la donna a ruoli subalterni in famiglia, in politica, al lavoro, nella Chiesa. Non possiamo delegare nessuno a scegliere per noi cedendo, come ha sottolineato più volte Papa Francesco, “all’apatia e alla rassegnazione che hanno il potere di inchiodarci nella tristezza di una vita piatta”.
S come Sguardo, di Aurora Nicosia
Dal Vocabolario Treccani: s. m. [der. di sguardare]. – 1. a. L’atto di guardare: rivolgere uno s.; evitare lo s. di una persona, per timidezza, pudore o consapevolezza di colpa nei suoi riguardi; rispondere allo s., guardare a nostra volta chi ci guarda; non degnare di uno s., disprezzare; uno s. pieno di odio, e assol. uno s. di odio, di compassione. Frequenti le espressioni dare, gettare uno s., in cui è sottolineata la rapidità, la fretta con cui si guarda: dai uno s. a questo mio articolo e dimmi la tua impressione; gettò uno s. intorno per vedere se c’era qualcuno che lo conoscesse; com. anche la locuz. al primo s., subito, immediatamente, a prima vista: s’accorse al primo s. che suo fratello gli nascondeva qualcosa. b. Determinando il modo del guardare e il sentimento, lo stato d’animo espresso: s. benevolo, dolce, pietoso, tenero, sprezzante; uno s. fiero e leale; s. timidi, furtivi. 2. estens. a. L’esercizio della facoltà di guardare, la capacità visiva: fissare lo s.; Quante volte intendesti lo sguardo Nei deserti del duplice mar! (Manzoni); fin dove arrivava lo s. non vedeva che deserto; la città è un’enorme produzione di s. non richiesti (Antonio Pascale); anche, la vista, gli occhi stessi: alzare, sollevare, abbassare lo sguardo. b. Visuale, vista, veduta: dalla terrazza si gode un bellissimo s. sulla vallata; di qui bellosguardo, luogo da cui si gode un bel panorama, frequente come toponimo (per es. Bellosguardo, località e villa su una collina a sud-ovest di Firenze).
Atto del guardare alle persone, alle situazioni, ai singoli e ai popoli, alle realtà evidenti e a quelle nascoste.
Atteggiamento che coinvolge gli occhi, la mente, il cuore e interpella fin nel profondo.
Capacità di intuire cosa muove l’animo umano, lasciarsi scomodare, entrare nelle ferite.
Capacità di accogliere, far proprio, quello che si percepisce, stimolando risposte al disagio, al dolore, alle difficoltà.
Capacità di cogliere il bello, il positivo, il bene.
Capacità di guardare “oltre” e consigliare.
Capacità di condividere la vita facendosi compagni di viaggio.
Capacità di pensare al bene comune.
Capacità di guardare avanti, di coinvolgere altri soggetti nel progettare un futuro migliore.
Capacità di non fermarsi alla superficie ma di guardare in profondità.
Capacità di andare oltre tabù e pregiudizi.
S come Silenzio, di Patrizia Palmisano
Amo il silenzio. Il silenzio fa ascoltare quello che hai dentro. Rabbia dolore amore tenerezza. Il silenzio mette in contatto con sé stessi. Solo se si è capaci di silenzio si può ascoltare. Le donne sanno stare sole, sono sole, è un universo parallelo in un mondo che abitua alla forma all’apparenza, al frastuono. Le donne piangono in silenzio i loro lutti, con dignità, con la dignità di chi partorisce figli che ci hanno detto nel dolore. Il silenzio è ascolto. Ma il silenzio delle donne non viene ascoltato. Siamo sante, martiri, schiave, mogli, madri, amanti, sorelle, amiche. Per sentire il silenzio delle donne bisogna imparare ad ascoltarne l'urlo. Per sentire l'amore bisogna fare silenzio e chiudere gli occhi. Fuori c'è molto frastuono, il silenzio si perde, il rumore dell'astio, del potere che sovrastano l'ascolto. E senza quello non esiste niente soprattutto l'empatia.
S come Sorriso, di Veronica Rodonò
Sorriso da definizione potrebbe sembrare solo un’espressione facciale che manifesta serenità, benessere e apertura nei confronti di un'altra persona, felicità, gioia o divertimento. In realtà, non è soltanto un’espressione provocata dal movimento dei muscoli ma è molto di più: il sorriso, se sincero, è contagioso, porta allegria non solo a chi lo dona ma soprattutto a chi lo riceve. Secondo degli studi è infatti terapeutico: aiuta ad affrontare con più leggerezza un trauma così come allieva ed allontana, anche se a volte solo temporaneamente, preoccupazioni e dolori. Ormai si sente, infatti sempre più spesso, parlare di “Terapia del Sorriso” come “attività professionale” e, anche se a volte si è scettici, di clown therapy soprattutto nei reparti pediatrici o nelle case di riposo. Questo proprio perché è inutile negare che: “iniziare una giornata sorridendo sicuramente fa affrontare a te, o a chi hai accanto, le difficoltà giornaliere in maniera differente e magari positivamente”. Come diceva, infatti, il teologo Samson Raphael Hirsch: “Un sorriso non costa nulla ma dà tanto”. E allora, cosa ci costa donare un sorriso? Forse da ora in poi, pensando a ciò che un sorriso può comportare nella giornata di chi abbiamo accanto, la mattina proveremo a “donarne qualcuno in più”. Stiamo però attenti che un sorriso può anche essere finto o a volte può nascondere più dolore di quanto si possa immaginare. Una persona, pur di non deluderti o farti soffrire può infatti “nascondersi dietro un falso sorriso”. L’importante è sempre e solo riuscire però a trasformare le cicatrici in bellezza, la tristezza in una grande forza e, quindi, in uno splendido Sorriso.
S come Speranza, di Roseline Eguabor
Ecco dieci punti per riflettere su come costruire oggi una speranza per tutte le donne:
- Essere donna non vuole dire essere privata della propria libertà. Gran parte delle donne non hanno questa libertà.
- Educare e investire sulle donne vuole dire educare la società, le donne migranti non devono essere abbandonate.
- La gloria più grande nel vivere non sta nel non cadere mai, ma nel rialzarsi ogni volta che falliamo o cadiamo. Questo è quello che ci insegnano le persone con cui abbiamo che fare ogni giorno nella nostra vita, nei posti di lavoro, le persone costrette ad abbandonare i propri paesi di nascita.
- Le difficoltà spesso preparano le persone comuni a un destino straordinario, per cui dobbiamo avere fiducia e dare spazio alle persone che in questo momento si sentono abbattute e scoraggiate.
- Così lontani e così vicini, non avere timore di conoscere il tuo prossimo, si dici che la terra, che gli stati sono fatti di confini, ma penso che quelli più pericolosi siano quelli della nostra mente e dei nostri cuori e tutto questo può solo causare odio verso gli altri.
- È strano che nel 2024 non comprendiamo che emigrare fa parte della vita umana, l’uomo è sempre alla ricerca di migliorare la sua condizione di vita, persino gli animali comprendono queste realtà fondamentale, perché lo fanno quando sentono la necessità di farlo.
- Mangiare è necessario, la mia domanda è di cosa ci nutriamo e che cosa leggiamo? Qui entrano in gioco le fake news, quale è il nostro punto di vista riguardo le cose che oggi ci girano intorno?
- Diversità è inclusione. La diversità è un valore aggiunto, è una ricchezza ed è un fatto naturale che deve essere apprezzato a prescindere dal paese di provenienza. Siamo tutti uguali, fatti dello stesso colore del sangue e dello stesso colore delle lacrime.
- La tratta esiste ancora, non dobbiamo mai dimenticarlo anche se la pandemia l’ha fatta sembrare scomparsa. Le donne vittime di tratta sono persone che lottano giorno e notte sperando in una via di uscita. Nell'ultimo anno il mondo ha osservato donne all'avanguardia superare gli ostacoli della loro epoca e tirare fuori da sé qualcosa di nuovo, un’energia che non c’era mai stata prima.
- I migranti sono persone con mille risorse che spesso non sono state apprezzate mentre bisognerebbe offrire loro le stesse opportunità per realizzarle.
S come Soglia, di Anna Bucca
Soglia porta con sé l’idea di una transizione.
Non separa come la frontiera o il confine ma mette in comunicazione due parti: l’esterno con l’interno, il dentro con il fuori, ciò che ci appartiene con ciò che ancora non ci è prossimo. La soglia è quel momento che precede un avvenimento, una manifestazione, una condizione: tante volte viene evocata per indicare quando inizia qualcosa, definendo la soglia del dolore o quella della felicità, la soglia della sopportazione.
La soglia rappresenta il passaggio, l’attraversamento: è lo spazio dell’accoglienza, è il luogo di mezzo dove si creano le condizioni per incontrarsi, dove è possibile ospitare.
Nell’area del Mediterraneo, ci sediamo sulla soglia di casa per parlare con le altre persone, soprattutto altre donne, per socializzare e raccontarci, per farci delle confidenze, per costruire fiducia, per osservare quel che succede in strada.
Si accoglie attraverso una soglia fisica - una scuola, una casa- o attraverso quella delle nostre relazioni quotidiane.
Una soglia è sempre a rischio di fragilità: può rappresentare entrata e uscita, può significare ricezione e rifiuto.
Per questo la soglia è anche un luogo di contraddizione: può essere il limite che non si deve oltrepassare ma anche lo spazio che si deve percorrere per incontrare gli altri.
Se ci si avviciniamo un piccolo passo alla volta, possiamo accogliere con consapevolezza, possiamo costruire una relazione, anche con il rischio di fraintendere l'altro, ma con la speranza di trovare punti di maggiore vicinanza.
E solo nel mezzo possiamo costruire accoglienza e ospitalità, che sono atti che non avvengono fermandosi non sulla soglia ma attraversandola.
S come Sorellanza, dello Spazio Donne ZEN - Associazione Handala
Sorellanza è un legame che unisce le donne tra loro e migliora il rapporto con altri soggetti e gruppi che condividono pratiche di emancipazione e conquista di diritti.
È lo scambio reciproco di esperienze, conoscenze e gesti di cura.
È andare verso le altre, confrontarsi per aggiungere valore ai nostri rapporti.
È unire le voci, le idee, le lotte.
Sorellanza è sostenersi e riconoscersi nelle differenze.
La sorellanza è una forza, che la natura ci ha dato, per alimentare gioia, amore, rispetto ed empatia.
La sorellanza si trasforma facilmente in pratiche originali, creative, giocose e gioiose. Rende unite nelle lotte e felici nella conquista di libertà.
La sorellanza diventa più forte se condivisa e diffusa, quando si trasforma in sostegno verso altre donne, quando trova le parole giuste per comunicare all’esterno il senso di una crescita collettiva, quando invade le città per rivendicare diritti ed esprimersi liberamente.
Quando la sorellanza diventa pratica politica e relazionale, inclusiva, in grado di coinvolgere tutte le persone, abbatte tutti i vincoli e le costruzioni sociali.
Sorellanza è quel modo di stare insieme, che ci aiuta a lasciare il nostro posto, non sempre sicuro, per metterci in gioco, per arrivare ad una rivoluzione basata sulla 'cura', delle persone e della natura, contro il patriarcato e il capitalismo.
T come Terra, di Anna Pia Viola
Diverse espressioni linguistiche sono rivelative di cosa intendiamo e come viviamo la Terra. “Avere i piedi per terra”, ad esempio, rimanda alla caratteristica di essere realistici in un progetto che ha ancora diverse variabili da realizzare. “Toccare terra”, nell’ambito marinaro soprattutto, esprime il raggiungimento di un porto e dunque l’esito felice di una traversata o di un viaggio. “Fare terra bruciata attorno” è un modo di dire che rende perfettamente l’idea di togliere ogni sostegno, appoggio e compagnia ad una persona o ad un progetto.
Bastano questi pochi esempi per indicare come “Terra” sia per noi molto più che un termine che indica un pezzetto di campo coltivato o il contenuto di un vaso da fiori in terrazzo. Terra significa solidità, sostegno, cura.
Il significato più profondo, però, ce lo consegna la sapienza antica che ha legato la Terra alla Madre.
Se il cristianesimo dei primi secoli si è confrontato con i miti delle culture pagane e a questi ha dato un impulso nuovo riconducendo la fertilità dei campi alla premurosa cura da parte della Provvidenza e allo sguardo materno della Madonna, da qualche decennio la sensibilità nei confronti della Terra è cresciuta presso i fedeli cristiani grazie all’attenzione mai sopita, da parte anche dei non credenti, verso ciò che è “natura”. Papa Francesco da anni ci sollecita ad un cambio di passo che mette al centro delle nostre attenzioni la cura e la custodia della Terra.
Custodire e curare sono i verbi propri del femminile e che creano alleanza fra l’uomo e la Terra. Non si tratta di un comportamento esterno, quasi estraneo, dell’uomo nei confronti di un ambiente da tutelare, ma al contrario è la consapevolezza che la Terra ci precede e dunque è essa a custodire l’uomo e a prendersene cura come nutrimento e medicamento. Chi custodisce qualcosa sa di non essere padrone di quel bene e di doverne rispondere; prendersi cura di qualcosa, e dell’ambiente in particolare, trasforma lo sguardo in attenzione, delicatezza e concretezza. La grave colpa dell’umanità è quella di non vivere in alleanza e armonia con il Creatore pretendendo di prendere il posto di Dio o, peggio ancora, di esserne un diretto rivale. In questo modo ci si comporta da devastatori dell’ambiente e dittatori della libertà altrui, impedendo agli altri di vivere in salute e circondati dalla bellezza. La Terra è per noi il grembo che ci accoglie alla vita e curarla significa anche riprendere a coltivare le terre dei nostri nonni per imparare a coglierne lo sviluppo e a garantirne il miglioramento. Dobbiamo impedire che la Terra soffochi, si perda con l’erosione e venga violentata dal fuoco.
Sguardo, valorizzazione e scelta, sono i passaggi essenziali per riabbracciare la Madre Terra ferita e lasciare che sia essa a rigenerarsi per prendersi cura di noi.
Imparare a vedere la bellezza della vita che in un filo d’erba si fa strada fra le pietre, nelle crepe dell’asfalto, riuscire a fermarci dinanzi alla fatica della vita che avanza, è il presupposto per farci cambiare atteggiamento trasformandoci da consumatori in autentici curatori della Terra come l’unica nostra risorsa.