Convegno Vocazionale della CEI

22-04-2014

Nutro la pretesa di provare a rileggere il brano evangelico di oggi, martedì dell’Ottava di Pasqua, nell’ottica dell’accompagnamento spirituale, in tema con il lavoro di questi giorni.

    1. La prima considerazione parte dalla domanda che sia gli angeli dentro il sepolcro, sia Gesù risorto, fanno a Maria: “Perché piangi?”
    È la domanda che riguarda la sconfitta dell’uomo, l’incontro e lo scontro con le sue debolezze, con la sua precarietà, con il suo limite, con il suo fallimento nella vita.
    Maria, in fondo, quel primo giorno dopo il sabato, sta andando a piangere su un fallimento, sta andando ad ungere un cadavere, sta andando ad apporre il triste sigillo di chiusura alla sua esperienza di amicizia con Gesù. Va al sepolcro perché crede che la morte sia l’ultima scena del rapporto con il Maestro. Maria sta andando, dunque, a celebrare la morte.
    Quella di Maria di Magdala è l’esperienza di chi si avvita nel proprio fallimento, ed ogni fallimento è riflesso della morte. È l’esperienza di chi giunge al capolinea della vita, di chi pensa che non ci sia più nulla da fare, se non portare un po’ di profumo nel sepolcro, per renderlo “meno sepolcro”, per addolcire la sconfitta, per autocommiserarsi in un disastro. È ancora l’esperienza di chi vuole piangere un Dio lontano, ma guardando molto a se stesso.     Forse anche l’esperienza di chi accusa Dio della sua solitudine: lui che mi aveva promesso…mi ha deluso!
    Ed è l’esperienza di chiunque non riesca a guardare, da solo, oltre al proprio fallimento e al non senso della vita bastonata nei suoi drammi, spezzata dalle prove, direi quasi mascherata dal grigiore del peccato e dell’errore.
    In Maria stanno tanti dei nostri giovani: quanti ne conosciamo! Spesso si accostano alla Chiesa, in tutte le sue mediazioni, con le stesse profonde ferite e le stesse delusioni di Maria di Magdala.
    Nostro dovere è fare la domanda sul pianto: “perché piangi?”.
    La domanda sul pianto cerca di indagare le ragioni autentiche di quelle lacrime. Ed è, credo, il primo elementare obiettivo che un vero accompagnatore deve porsi quando incontra il dramma di chi lo accosta. Ascoltare le lacrime dell’altro nella filigrana di questa domanda fa uscire accompagnato ed accompagnatore dalla mera dinamica consolatoria. Per riuscire a ipotizzare una prima risposta circa la condizione esistenziale dell’accompagnato. Per fargli assumere la verità della sua vita: per passare dalla “percezione del capolinea” alla “percezione del bivio”.
    Padre Pino Puglisi fu uomo dell’ascolto: le sue orecchie grandi ascoltarono e raccolsero drammi e lacrime, consolando e facendosi compagno di viaggio discreto.

    2. Ed è Gesù in persona che cerca di far fare a Maria un passo ulteriore.
    E non dando la risposta al “Perché piangi?” ma passando alla domanda “Chi cerchi?”. È il passaggio dalla domanda sul pianto, alla domanda sulla ricerca.
    È il passaggio che serve a far comprendere all’accompagnato verso dove vuole orientare la sua vita, la direzione da prendere, le scelte che può fare, la ricerca autentica che c’è nel suo cuore.
    Non è più il livello elementare dello sguardo su se stessi e sulla propria storia ferita e disastrata, piuttosto un levare il capo e rivolgersi ad un’altra direzione, per cercare un’altra Persona.
    La domanda sulla ricerca, che aveva aperto il Vangelo di Giovanni, lo chiude dinanzi al sepolcro aperto: per Maria, come per ogni uomo che piange in quel giardino, la sfida è stata sempre comprendere che le lacrime sono indice di una ricerca mai soddisfatta. la sfida è orientare verso una Persona che può dare o ridare il senso della vita: il Signore Gesù. Indicare che la ricerca di lui è la chiave di volta della costruzione della vita stessa.
    Un accompagnatore dovrebbe sempre creare e ricreare le condizioni per questo passaggio da uno sguardo ancora molto adolescenziale della persona che si nutre delle proprie lacrime, ad uno sguardo più adulto di colui che vuole essere protagonista del proprio cammino, che vuole intraprendere strade nuove tenendo conto di una direzione chiara.
    Padre Pino Puglisi ci ha insegnato a fare e a far fare questo passaggio, focalizzando sulla domanda del “senso”, della “direzione”: a che serve la vita se sbagliamo direzione?
    La “direzione” verso il Risorto che ci ama è la possibile risposta alla domanda sulla ricerca.

    3. C’è un terzo passaggio che mi piace sottolineare. 
    Questo processo che, pur da non addetto ai lavori, ho tentato di descrivere sul rapporto tra accompagnato ed accompagnatore, ha e deve avere un meraviglioso esito: Maria sente pronunciare il suo nome dalle labbra di Gesù.
    Ed è soltanto quando Maria ascolta il suo nome dal Maestro, quando si sente chiamata, che può davvero riconoscere la novità del momento che sta vivendo.
    Ma anche lì, quella chiamata non può essere portatrice dello stesso sguardo sul passato.
    Maria vuole trattenere la carne di Gesù, e vuole farlo ancora in modo egoistico, immaturo: pensa di aver finalmente trovato quanto cercava, ciò per cui piangeva, di essera rrivata all’esito della sua vita. Ma Gesù le intima: “Non mi trattenere”. Non solo Maria non deve accaparrarsi il Signore risorto, ma riceve da Gesù un mandato chiaro: andare dai fratelli.
    Si tratta di un’esplosione missionaria, di una nuova direttrice centrifuga, di un andamento della vita che non si nutre più di lacrime, piuttosto si costruisce giorno per giorno su passi verso gli altri.
    A Maria, come ai giovani che si accostano a noi, deve essere proposta la costruzione della Chiesa e dell’umanità nuova in questo andamento centrifugo, che non trattiene più nulla per sé ma dona tutto di sé ai fratelli.
    Padre Pino Puglisi fu esperto in questa educazione al servizio, che vide sempre come annuncio missionario vero e proprio. Basti pensare al volontariato attorno a sé.