Santa Messa per le Vittime della Violenza

Chiesa del Seminario, 5 novembre 2005
05-11-2005
S. MESSA PER LE VITTIME DELLA VIOLENZA
OMELIA DEL CARDINALE ARCIVESCOVO
Chiesa del Seminario, 5 novembre 2005

1. L’Anno Liturgico volge ormai alla fine. E in questa 32ª Domenica del Tempo Ordinario, la parola di Dio ci invita a guardare con gli occhi della fede alle ultime realtà della nostra esistenza: di quella personale alla fine della vita, di quella collettiva alla fine della storia.
    Un pensiero, quello della fine, che dalla cultura e dalla mentalità del nostro tempo viene facilmente rimosso, come fonte di angoscia e di alienazione. Anche se poi i mezzi di comunicazione ci presentano quotidianamente lo spettro impietoso della morte nelle sue versioni più inedite e raccapriccianti e la stessa cultura si muove più nel senso della morte che della vita.
Della morte come della vita non si afferra e non si comprende più il senso, perché non si è più in grado di trovare la vera ‘sapienza’ che abbiamo ‘contemplata’ nella Prima Lettura.
    Non si tratta semplicemente della saggezza umana e neppure della dottrina religiosa accumulata con l’esperienza della vita. Ma della personificazione di Dio stesso, che nell’Antico Testamento raggiunge la sua massima qualificazione in questo libro del I secolo a.C., il libro appunto della ‘Sapienza’.
    La sapienza divina è ‘radiosa’, cioè illuminante. È ‘indefettibile’, ossia non viene mai meno come quella umana, che cambia con le mode del tempo.
    ‘Previene, per farsi conoscere, quanti la cercano’. Anzi ‘essa medesima va in cerca’: ma ‘di quanti sono degni di lei’, e ‘va loro incontro con ogni benevolenza’.
    ‘E’ un dono che va comunque ‘ricercato’ nella ‘veglia’, ‘contemplato’ nella ‘riflessione’, ‘amato’, ossia tradotto nelle scelte concrete della vita.

2. Tutto ciò appare anacronistico e illusorio in un mondo secolarizzato, agnostico e relativista, che ricerca, al di fuori di Dio, le vie della liberazione e della costruzione di un futuro più sereno e più umano.
    Eppure ‘solo chi veglia per lei [per la vera sapienza] sarà presto senza affanni’. Non in quanto li elimina, ma in quanto aiuta efficacemente a superarli, vincendo le tentazioni del nichilismo.
    È l’esperienza esaltante del Salmista, che nel Salmo Responsoriale ci comunica il suo insopprimibile desiderio e bisogno di Dio, che egli ricerca assetato, ‘come terra deserta, arida, senz’acqua’, mentre s’incammina verso il santuario ‘per contemplare la potenza e la gloria’ del Signore.
    Significativa e stimolante è la ragione che adduce: ‘la tua grazia vale più della vita’. Questa ha senso e valore solo se orientata verso Dio, unica fonte che sazia la ‘sete’ dell’uomo e unico ‘aiuto’ che dà la ‘gioia’ della sicurezza e del sostegno.
Nella ricerca e nella comunione con Dio non c’è solo il senso della vita ma anche quello della morte, davanti alla quale ‘l’enigma della condizione umana diventa sommo’ (GS 18).

3. E questo enigma diventa più incomprensibile quando la morte è causata dalla violenza in tutte le sue espressioni, antiche e nuove.
    Tenendo fede a una tradizione, che mi auguro possa affermarsi sempre più, in questo giorno in cui le Diocesi siciliane celebrano liturgicamente tutti i Santi di Sicilia, noi intendiamo ricordare e onorare, insieme e senza distinzioni, tutte le vittime della violenza che hanno insanguinato la nostra Città, particolarmente i molti servitori dello Stato che hanno pagato col sacrificio della vita la fedeltà al dovere e l’impegno nobilissimo di liberare la nostra terra dai mali sociali che l’affliggono, a cominciare dal mostro tentacolare della mafia.
    Mentre affidiamo le loro anime alla misericordia paterna di Dio perché li accolga nel suo Regno di luce e di pace, esprimiamo la nostra continua partecipazione al dolore delle loro famiglie, che può trovare conforto e serenità solo nella fede in Cristo Risorto. È lui la vittima più grande della violenza umana: in lui Crocifisso sono presenti tutti i crocifissi della storia e in lui Risorto e glorificato attendono l’esito definitivo ed eterno del loro sacrificio.
    Dal loro sacrificio, che non possiamo, non dobbiamo dimenticare, siamo tutti stimolati a un rinnovato sussulto della coscienza individuale e collettiva, perché da parte di tutti si risponda decisamente, con convinzione, con coraggio, fattivamente, alla pseudo cultura della violenza, che è cultura di morte, con la vera cultura della legalità, che è cultura di vita. Si pensi, ad esempio, quante morti in meno ci sarebbero se si osservassero le norme del codice della strada e della sicurezza sui posti di lavoro.

4. La cultura della vita condanna ogni forma di violenza privata e pubblica.
    Il Concilio Vaticano II, del quale commemoriamo il quarantesimo anniversario della conclusione, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, che dovrebbe essere più conosciuta a livello culturale e più valorizzata a livello esistenziale, traccia un panorama spaventoso delle più diffuse forme di violenza nel mondo. E così si esprime: ‘Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, le costrizioni psicologiche, tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni di vita subumana, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, le schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro, con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili, tutte queste cose ed altre simili sono certamente vergognose. Mentre guastano la civiltà umana, disonorano coloro che così si comportano più ancora di quelli che le subiscono e ledono grandemente l’onore del Creatore’ (n. 27).

5. La cultura della vita è il fondamento della civiltà dell’amore, che vince la violenza e ne spezza la spirale perversa con la forza stessa della carità operosa. Insegna ancora il Concilio (GS, 26): ‘Ciascuno consideri il prossimo, nessuno eccettuato, come un altro ‘se stesso’, tenendo conto della sua esistenza e dei mezzi necessari per viverla degnamente [‘]. Soprattutto oggi urge l’obbligo che diventiamo prossimi di ogni uomo e rendiamo servizio con i fatti a colui che ci passa accanto: vecchio abbandonato da tutti, o lavoratore straniero ingiustamente disprezzato, o esiliato, o fanciullo nato da un’unione illegittima, che patisce immeritatamente per un peccato da lui non commesso, o affamato che richiama la nostra coscienza, rievocando la voce del Signore: ‘In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me’ (Mt 25,40).
    Questa sollecitazione evangelica del Concilio ha trovato nella Chiesa la risposta del volontariato: uomini e donne, giovani e meno giovani, che hanno compreso come per ritrovare pienamente se stessi bisogna donarsi generosamente e disinteressatamente a quanti subiscono la violenza sociale della povertà, della emarginazione, della negazione dei diritti fondamentali.
    Essi debbono essere al vertice delle attenzioni degli amministratori con interventi concreti, continui e lungimiranti, soprattutto quando le povertà, come risulta dai dati dell’ISTAT, aumentano e i bisogni si fanno sempre più impellenti, ma anche non sufficientemente soddisfatti.
    La Chiesa di Palermo, che attraverso l’opera illuminata e lungimirante della Caritas Diocesana promuove le diverse forme di volontariato, nel giorno in cui commemora le vittime della violenza, ringrazia tutti i volontari, questi testimoni dell’amore di Cristo, che alimentano le lampade accese della fede con l’olio della carità operosa.
    Mi piace leggere in quest’ottica la parabola delle dieci vergini che Gesù ci ha riproposto or ora nel Vangelo.

6. È una parabola che mette l’accento sulla necessità della vigilanza nell’attesa del ritorno imprecisato dello sposo, cioè del Signore. Il suo rapporto con la Chiesa, germe e inizio del Regno sulla terra, è simboleggiato, secondo la più costante tradizione biblica, dal rapporto sponsale. E lo stesso compimento definitivo ed eterno del Regno è presentato come una festa di nozze.
    Il cammino terreno del cristiano è andare ‘incontro allo sposo’. Ha avuto inizio col Battesimo, quando tutti, come le ‘dieci vergini’, abbiamo ricevuto le ‘lampade’ della luce di Cristo, simboleggiate dai piccoli ceri, accesi dai genitori dal grande cero pasquale. Una fiamma che va sempre ‘alimentata’ (cfr. Rito del Battesimo).
    Non basta infatti prendere le lampade. È necessario prendere ‘con sé’ anche ‘dell’olio’. A somiglianza delle ‘vergini sagge’. E a differenza delle ‘stolte’.
Siamo anche noi saggi quando alimentiamo la fede del Battesimo con la carità operosa. Su questa saremo giudicati al tramonto della vita e alla fine della storia (Mt 25,31-46) quando egli ritornerà nella gloria.
    Sarà un ritorno glorioso per quanti, come le vergini sagge, sono pronti alla sua venuta ed entrano ‘con lui alle nozze’.
    Sarà un ritorno di condanna per quanti, come le vergini stolte, sono impreparati e trovano ‘la porta chiusa’. Invano grideranno: ‘Signore, Signore aprici!’. Perché la risposta sarà inesorabile: ‘In verità vi dico: non vi conosco’.

7. L ‘invito del Signore alla vigilanza operosa ‘nell’attesa della sua venuta”, come proclamiamo in ogni celebrazione eucaristica, ci trovi ascoltatori attenti e docili. Non tanto per il timore di trovare ‘la porta chiusa’. Quanto per la gioia di entrare ‘con lui’ alle nozze eterne.
    Ci sia di esempio Maria. A lei, dolente ai piedi della Croce, affidiamo il sacrificio cruento delle vittime della violenza e il dolore dei loro familiari. A lei, premurosa nel dare spontaneamente aiuto alla cugina Elisabetta, affidiamo il sacrificio incruento degli operatori della carità, autentici costruttori dell’unica civiltà degna di questo nome: la civiltà dell’amore.